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Giorgio Morandi e il mistero delle forme

Un Vermeer moderno che dà voce al silenzio degli oggetti
martedì 1 ottobre 2013 di Elvira Brunetti

Argomenti: Arte, artisti


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“Quelli del nord non conoscono la pigrizia, perché conoscono meglio l’inverno…Perché viaggiare quando il mondo viene da noi”. Così l’immobilità del pittore vissuto sempre a Bologna si manifesta nella osservazione costante degli oggetti poggiati su un tavolo. Certamente la sua celebrità è legata alle nature morte di bottiglie e vasi (Fig.01), che sono tuttavia la punta di un iceberg che ha sperimentato e maturato soggetti e tecniche pittoriche diverse. Di tale percorso ha tenuto conto la mostra al Bozar di Bruxelles da poco conclusasi, sebbene abbia costituito l’interesse principale di visitatori e turisti per l’intera stagione estiva dal 6 giugno al 22 settembre. Una retrospettiva ricca di opere importanti dal famoso autoritratto del 1924 (Fig.02), degnamente in permanenza nel corridoio del Vasari a Firenze, ai paesaggi che hanno immortalato la sua Grizzana o via Fondazza. Gli acquarelli, i disegni e le acqueforti che esegue dal ’15 al ’56 sono presenti, come i fiori e le conchiglie, ma soprattutto le nature morte nelle loro differenti fasi di produzione.

Giorgio Morandi nasce nel 1890 a Bologna e vi muore nel 1964. S’interessa subito alla rappresentazione del paesaggio in un modo del tutto personale anche se influenzato dagli Impressionisti. Vicino e non indifferente alle avanguardie d’inizio secolo, non si è mai attardato su nessun movimento, lavorando autonomamente e in quella solitudine dettata tra l’altro dall’angoscia della Grande Guerra. Prima ancora dei Fauves a soli 15 anni dipinge il “Mazzetto di fiori” del museo Morandi di Bologna. Come non vedere Matisse nelle foglie “artigliate” o in quel disegno geometrico e cromatico del piano di appoggio?

Nel 1920 partecipa alla biennale di Venezia, dove vede per la prima volta Cézanne, Monet, Renoir: tre maniere pittoriche che lo impressioneranno. Nei suoi paesaggi ritroviamo una luce già nota eppure nuova. Non si tratta di un mero studio delle forme e della loro relazione spaziale, c’è dell’altro, una sorta di intimismo poetico, che racchiude una emozione misteriosa. Forse un po’di Vermeer ma con un’inquietudine moderna. Per il suo amico Renato Guttuso egli è il continuatore di Cézanne, “e forse il più originale e acuto insieme a Braque”. Ci sono ugualmente espressioni geometriche ereditate dal Cubismo, ma quella luce della casa di Grizzana (Fig.03) è una chiara premessa del bianco delle bottiglie, il colore protagonista della sua pittura. E ancora “La strada bianca” come un’ossessione riflessa nella riduzione graduale verso il dicromismo. Una tendenza che vuole esaltare la netta differenza tra il bianco della strada e i colori scuri dei contorni. Attraverso tale processo di semplificazione che si collega alla sua passione per l’acquaforte Morandi raggiunge l’essenza fino a negare la differenza tra paesaggio e natura morta, perché è dentro quelle forme che regna il significato più profondo. Un velo di austerità ricopre i muri delle sue case spoglie; sono paesaggi muti, dove le poche cose rappresentate mirano a cancellare la loro esistenza per indicare l’incomprensibile, quel mistero metafisico di memoria dechirichiana.

Giorgio Morandi insegnò per molti anni l’arte dell’incisione e fu maestro di opere grafiche stupefacenti come quelle della raccolta Bertarelli, legato di Lamberto Vitali presso il castello Sforzesco di Milano. Un capolavoro di precisione che emana una sensazione di raffinata bellezza è l’acquaforte del ’46 (Fig.04); mentre semplicemente sorprendente è quella che rappresenta in primo piano su un tavolo 5 vasi o bottiglie, lasciate in bianco, risaltanti sul contorno realmente inciso su rame (Fig.05).

Ma l’emozione più forte si prova di fronte alla celebre natura morta del 1918 di Brera (Fig. 06), definita da Flavio Caroli: “ Un quadro diabolicamente perfetto e inspiegabile”. Vi si potrebbe leggere De Chirico per la testa del manichino, Magritte per il riquadro sullo sfondo che richiama un caminetto, ma è solo Morandi. Accanto c’è quella del 1916, dai colori alquanto slavati, che rimandano all’affresco quattrocentesco o alla maniera di Piero della Francesca, una delle poche sopravvissute alla sua rabbia distruttiva, di cui a volte era vittima per l’imperfezione espressa, eppure preziosa per la sua meditazione sulle opere del passato, attraverso la quale è poi approdato a quel pilastro di poesia pittorica della pinacoteca di Milano, una pagina di armonie di toni luminosi altamente calibrate.

Perché, guardando alcune Still life del 1920 si ha l’impressione commovente e dolce di un’unica luce diafana, tendente al malva che avvolge i diversi piani e volumi cromatici (Fig.07)? L’incognita di Morandi che preferisce evocare invece di dire ha colpito naturalmente l’attenzione di Roberto Longhi, che di lui disse: “ È il migliore pittore italiano vivente”. Con la sua consorte Anna Banti erano in buoni rapporti di amicizia tant’è che Giorgio offrì loro in regalo un dipinto di fiori. Nella natura morta della sua collezione in primo piano giacciono 5 contenitori bianchi più o meno cilindrici mentre dietro appena percettibili si notano oggetti simili ma rigorosamente bruni. Sembra il solito contrasto di colore, ma si rivela un brano lirico, rilassante.

Nel 1936 Morandi raggiunge l’acme della sua arte con la realizzazione di un’opera dalla morbidezza pittorica, pur trattando oggetti di vetro e metallo (Fig.08). L’impressione della visione dal vivo di tale natura morta, divenuta il logo della mostra e la copertina del catalogo, è tutt’altra cosa rispetto allo sguardo per quanto attento di una foto o di un libro. Quella bottiglia bianca dall’impasto molle, raffinato e aggraziato, il cui collo spicca tra 4 oggetti più bassi diventa da quel momento protagonista di numerosi quadri successivi (Fig.09). Si tratta di espressioni di un equilibrio conseguito dalla maturità avanzata dell’artista (Fig.10). E forse diventano più comprensibili le opere apparentemente insignificanti concernenti le conchiglie, per esempio, dove le sperimentazioni successive indicano un’arrovellarsi della mente sulle superfici concave e convesse e l’incidenza luminosa. Pensiero che induce una riflessione intorno alla dimensione del tempo e la sua durata. L’organico muore a differenza dell’inorganico, perché non immortalare la bottiglia che ci sopravvive?

Finalmente è chiara all’osservatore l’insignificanza dell’oggetto in sé e per sé. Sono solo forme e volumi per dire il silenzio delle cose, che come gli esseri viventi sono ugualmente depositari del mistero che ci circonda.

Giorgio Morandi ha catturato l’attenzione di tanti pittori, poeti, registi di grosso calibro artistico come Michelangelo Antonioni, Bernardo Bertolucci e ancora scrittori come Borges che lo ha definito: “Un punto da cui si può spiare l’infinito”.