La drammaturgia di Vaclav Havel è andata progredendo da una iniziale aderenza all’assurdo, espresso attraverso l’avanguardia del teatro della Balustrade, a più impegnativi temi che cercavano di smontare spiegazioni e meccanismi totalitari da lui analizzati anch’essi come testimonianza dell’assurdo che piega, annulla e falsifica le stesse condizioni dell’individuale umanità. Ne dà testimonianza Melena Albertova nel The World Enciclopedia of Contemporary Theatre.
Le sue prime opere (da The Garden Party, 1983, The Memorandum, 1953, The opening, 1975, che citiamo in inglese perchè in quella traduzione si sono fatte conoscere a livello internazionale, sino a Largo Desolato, 1984) danno l’esatta misura del suo stile originale e della sua capacità di penetrare nella desolazione individualistica provocata dai regimi di massa.
- Il drammaturgo Vaclav Havel
Non entriamo qui nel merito delle vicende politiche che lo hanno visto passare dalla clandestinità agli arresti e alla primavera di Praga con la Charta 77, sino alla proclamazione a presidente della repubblica Ceca all’indomani del crollo del comunismo sovietico. In quella fase degli anni ’70 egli aveva avuto contatto sia con l’Ente teatrale italiano sia con la rivista “Ridotto”.
Adesso la rappresentazione al Piccolo Eliseo di Udienza – appartenente quella stessa fase – fa conoscere agli spettatori italiani la sua sottile arte della provocazione nel mostrare tutte le corde della pesantezza burocratica, della ipocrisia, della paura, della delazione, armi proprie di regimi come quello che egli subiva con la segregazione, la persecuzione, l’arresto. La vicenda dell’intellettuale costretto a farsi operaio addetto al trasporto della birra in una fabbrica e che noi vediamo a colloquio con il capobirraio, vittima a sua volta del clima di terrore poliziesco a cui soccombeva l’intera Cecoslovacchia, rivela come la condizione umana possa essere facilmente assoggettata alle più aspre torsioni psicologiche, rovesciando il senso dei comportamenti e delle parole.
- Il Piccolo Eliseo di Roma
Mentre in quella spietata quanto ambigua forma di repressione il capo birraio cerca forse invano una via d’uscita, ossessionato come è dalle domande che gli rivolgono “loro” cioè gli infami manutengoli del potere politico, l’intellettuale con la semplicità del suo comportamento e delle sue parole, con il tentativo di sottrarsi ad ogni discorso più compromettente per entrambi, interpreta perfettamente il destino ingrato di chi è cresciuto negli ingranaggi di quel regime. E quindi proprio la rivelazione grottesca, al limite dell’ilarità beffarda, conferma tutta la miseria morale che si respira in quell’aria privata del soffio della libertà, al quale l’autore resta coerentemente fedele, pagando di persona.
Sono queste le considerazioni che ispirano la messa in scena del testo, che sin dalle prime battute (come il richiamo ai barili di birra da spingere dentro o fuori dall’azienda) riesce a sottolineare il senso stesso di una tragedia osservabile meglio attraverso la sua descrizione, quasi come in una parabola, in un ambiente di lavoro conosciuto direttamente dallo scrittore perché in un luogo simile è stato inviato per punizione dal regime.
- Il regista Pietro Bontempo
Lo spettacolo, diretto da Pietro Bontempo, autore anche delle scene, e interpretato con sapiente sottolineature dei punti essenziali da Roberto Abbati e dello stesso Bontempo, si regge per l’accurata scansione del dialogo, teso, nella volontà di Havel, a mettere in chiaro le soperchierie di quella dittatura. Forse le bevute del capobirraio possono essere anche ridotte di numero, perché sin da subito emerge la ripetitività di quel tipo specifico di rapporto tra i due protagonisti, e quindi lo smascheramento della falsità è già insito nelle parole che essi si scambiano senza bisogno di ulteriori segnali.
Al riconoscimento del merito del realizzatore e dei valenti attori va aggiunto l’apprezzamento per la scelta della Fondazione Teatro Due di Parma e quindi del Piccolo Eliseo.
Carlo Vallauri