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Nicolao Merker, Filosofia del colonialismo, Eutimia

Filosofia del colonialismo


lunedì 11 marzo 2019 di Andrea Comincini

Argomenti: Letteratura e filosofia
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Nicolao Merker


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Ogni riduzione a schiavitù dell’essere umano, ogni genocidio o violenza razziale si fondano su una semplice ingiustificabile violenza. Nonostante ciò, persino i carnefici più spietati cercano di motivare le loro azioni, fornendosi un fondamento ideologico, addirittura etico.

In Filosofia del colonialismo (Eutimia, 2018), Nicolao Merker sintetizza quel nocciolo duro d’idee che sono servite a tracciare le rotte di bastimenti carichi di esseri umani mandati al macello, o a sottomettere popoli interi senza batter ciglio. Il punto focale dell’analisi è stabilire una politica di dominio e rieducazione basata sulla necessità della stessa, e non sull’eventualità o i gusti personali. La civilizzazione offerta dal mondo occidentale ai popoli ‘inferiori’ ha sempre avuto due connotati: il primo, era dovere dei civilizzati contribuire a sanare le piaghe dei derelitti, convertendoli al vero Dio; il secondo, bisognava mantenere le distanze da quelle razze e non mischiarvisi, perché indegne. Si tratta quindi di prendere atto della nascita di una strana forma di etica, pedagogica e salvifica, ma anche apocalittica. Merker spiega come e quando questa tendenza si è affermata, e giudica fondamentale la diffusione del cristianesimo tra l’XI e il XIII secolo: con una omologazione culturale consolidata, il passo successivo fu naturalmente espandere quella forma mentis dovunque le flotte delle grandi potenze andassero a sbarcare. È così che si può leggere che nel 1634 “il diario del primo governatore del Massachusetts registrò come un segno di Dio che il vaiolo facesse strage di pellerossa: “è come se il Signore avesse voluto in questo modo intestare a noi la proprietà delle terre in cui stiamo”.

Come si può notare, la giustificazione coloniale sarebbe benedetta e persino voluta dal Creatore, il quale farebbe di tutto per spianare la strada alla Sua religione. È importante sottolineare ancora una volta, tuttavia, che il colonizzatore cerca una via di fuga per la propria anima: la morale cattolica e protestante reclamava comunque una via di salvezza per quanti si macchiavano le mani di sangue, e questa veniva offerta dal vocabolo “missione” – cioè compito ineludibile e contemporaneamente voluto dal cielo. La storia del razzismo attraversa l’Europa e coinvolge anche nobili pensatori contrari alle discriminazioni (si pensi a Kant o a Hume) perché intrecciata con il concetto di superiorità razziale del bianco. Il negro invece appartiene a qualcosa di diverso, sarebbe una specie di subumano da addomesticare: nonostante infatti si dovesse redimerlo, era chiaro che ciò riguardava solo la sua anima, e non lo status sociale. “Chi è stato chiamato dal Signore essendo schiavo è soltanto un affrancato del Signore” (Prima Corinti, 7,22.) , ovvero lo schiavo resta tale, proprietà del bianco latifondista.

Questa idea di affrancamento dalla barbarie, per il bene del barbaro, si scontra tuttavia con un paradosso che ne smaschera la malafede. Un altro elemento chiave della propaganda schiavista è che nonostante tutto, non si potevano redimere questi esseri inferiori. Integrato sì, ma non assimilato – ognuno doveva star nella scala naturale voluta da Dio, e assolvere i compiti che spettavano al rango competente. Le velleità e gli sforzi salvifici cozzano con l’impossibilità di trasformali comunque in “veri umani”, sollevando il paradosso di cui sopra: perché agire, se inutile? La realtà è che qualsiasi “filosofia” non poteva e non può mascherare il semplice istinto predatorio che ha caratterizzato l’Europa fino ai giorni nostri, nonostante ogni tentativo di imbellettare ogni pratica coloniale.

Merker fa una carrellata dei luoghi comuni di molte nazioni europee e dei loro preconcetti classisti, evidenziando quanto in fondo siano tutti simili. Fra i più interessanti emergono quelli legati al “colonialismo di sinistra”, cioè il colonialismo “per il bene altrui”, sviluppato per affrancare “gli inferiori”, ma in realtà solo un altro modo per mettere le mani sulle terre e gli affari dei popoli conquistati. “La regola aurea era che chi sta in cima alla scala evolutiva assegna d’autorità gli spazi vitali a chi sta più in basso, e lo fa sia con il pugno di ferro, sia con il guanto di velluto”.

Questa mentalità eurocentrica si diffuse e ha ancora piede oggi, per esempio in Africa con stati come il Senegal, la cui storia è paradigmatica per una filosofia del colonialismo. In questa terra si sono visti emergere politici che hanno apertamente affrontato il tema coloniale e razziale adottando spesso gli strumenti ideologici assimilati dal nemico. Una concezione tribale della comunità ha accompagnato programmi elettorali di dubbio gusto. Per fortuna c’è anche il rovescio della medaglia: a stretto contatto con gli ideali di uguaglianza, fraternità e libertà, i colonizzati hanno iniziato a reclamare pari diritti e nuove opportunità.

Nel XXI secolo il colonialismo non solo è ancora vivo, ma ha preso strade nuove e ancora da definire: questo piccolo libretto può aiutare a comprendere l’origine del lungo cammino che continua a produrre destabilizzazioni e forme di schiavitù in ogni angolo del pianeta.