Nel passaggio dalla scrittura alla scena, la donna degente in una casa di riposo, metafora di Claudio Magris per descrivere l’Ade in Lei dunque capirà, trasforma i suoi sentimenti narrati in una visibile contingenza del senso interiore della confessioni per far notare maggiormente gli aspetti materiali.
Già nella figura fisica della protagonista del monologo - una suadente e comprensiva moglie - amante - madre rappresentata dalla regia di Antonio Calenda attraverso l’interpretazione resa da Daniela Giovanetti con intensa introspezione psichica - si avverte non tanto il “grande amore” vissuto nel passato quanto una presenza protettiva nel richiamo di tutto ciò che lei ha fatto per lui, insegnandogli ad amare e a manifestare se stesso nella pienezza realizzativa della sua creatività. Il richiamo - più esterno, a nostro avviso, di quanti altri hanno sottolineato - al dramma di Euridice nei confronti di Orfeo che per trovarla è sceso nell’Ade, sembra venir meno quando, rispetto al mito classico, è la donna a preferire di restare sola in questo “al di là” di memorie, di rimpianti e nostalgie. Emerge con forza una volontà femminile che sa imporre la propria personalità e che spiega al presidente del singolare Ospizio quanto solido fosse il loro rapporto e quanto ora sia meglio per lei che la separazione si prolunghi.
La loro unione più intima continua a vivere in una congiunzione che nulla perde nella distanza, voluta dal destino non rifiutabile, perché è formata da un affetto così profondo da superare ogni lontananza. Questa infatti è annullata dalla passione reciproca che permea ancora l’ “esistenza” - se così può essere definita - di entrambi, lei ormai stabile in quella sede ultronea ove nulla può ferirla e da lì vede il “suo” uomo continuare i giorni dell’esistenza senza subire, per deliberata scelta, la delusione, il peso per lui in una vita quotidiana ancora, arricchita dal pensiero di lei, che ha voluto restare sola.
Modernissima quindi la concezione della vita indipendente che ciascuno dei due può continuare ad avere pur nella diversità delle condizioni, perché appunto non sono i riscontri materiali a caratterizzare ormai il loro stare insieme, segnato dall’eternità, quanto il loro comune sentire, continuamente rinnovato nel recesso dei loro spiriti individuali. E quegli aspetti materiali, di oggetti concreti e carne, apparsi sulla scena - una autentica e sottile invenzione d’artista - fanno sentire agli spettatori quella tragedia della separatezza come una vicenda umanissima che può colpire ciascuno di noi. E al Piccolo Eliseo di Roma lo spettacolo di Calenda ha trovato il luogo più opportuno per dare alla vicenda il senso di un lirico realismo di natura spirituale (non è un ossimoro).