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Lo spazio bianco: UNA MATERNITA’ INSIDIOSA NELLA NAPOLI DEI PRECARI


sabato 5 dicembre 2009 di Carlo Vallauri

Argomenti: Prime Cinema


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Lo spazio bianco a cui allude il titolo del nuovo film di Francesca Comencini è quella sorta di fascia albineggiante che si intravede spesso all’interno dei meccanismi elettronici nei quali si condensa l’osservazione del controllo medico su un corpo o sulla parte di un corpo. Ma in senso metaforico è invece quell’atmosfera di sospensione nella quale si vive quando penose incertezze gravitano nella nostra vita, come nel caso di Maria, la protagonista di questa storia di sofferenza personale, alla quale tuttavia si aggiungono – ed è merito della regista e del bravo realizzatore delle foto, Luigi Bigazzi – le sequenze di una Napoli insolita, vista nelle sue bellezze rituali ma soprattutto nella vita quotidiana dei frequentatori di una scuola serale per adulti. Sono tante persone altrettanto incerte del loro destino, come lo è Maria per il figlio nato tanto prematuro da dover restare a lungo nell’incubatrice. Così, tra l’ospedale, dove vive il dramma insieme ad altre madri nelle stesse condizioni, e gli allievi della scuola, si assiste al passare silenzioso dei giorni tra l’incubo e la speranza.

Merito della Comencini è di aver affrontato direttamente l’argomento – come fece d’altronde anni fa con Mobbing, il migliore film apparso su quell’argomento tanto scabroso – senza nessun senso pietistico, ma con una sensibilità vigile ai minimi turbamenti della protagonista, ai suoi timori e dubbi, anche nei confronti del padre del neonato, subito scomparso perché altrimenti impegnato. È quindi una sottile introspezione nell’animo che in profondità riconduce, per certi tratti, alle sottili intimità di Bergman. Fragilità ed incertezza si intrecciano nell’anima della giovane insegnante senza che venga meno il suo dovere verso persone che attendono da lei quel tanto di bagaglio culturale in grado di migliorare la loro condizione, mentre ben più angosciante è l’attesa di Maria, perché nulla può progettare: non c’è che da sperare e – per chi crede – pregare (è una battuta del film). Una regia sobria, d’alta qualità, sempre tesa sull’orlo di una psicologia capace di raccogliere qualsiasi vibrazione interiore.

Margherita Buy ha saputo offrire dolcezza e tremore al personaggio (a torto trascurato dalla giuria di Venezia), esprimendo l’amarezza di una donna che da sola sa affrontare giornate tanto tormentate

Carlo Vallauri

 

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