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LOST IN TRANSLATION

Giapponesi, “perduti nella traduzione”?
lunedì 1 luglio 2013 di Giovanna D’Arbitrio

Argomenti: Opinioni, riflessioni
Argomenti: Turismo


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Talvolta ci sentiamo come Bob, il personaggio del film “Lost in translation” (di S. Coppola), in un mondo che ci sembra sempre più condizionante e incomprensibile. In viaggio di lavoro in Giappone, Bob non riesce a comunicare: la traduzione non basta, in essa si perde sempre qualcosa, soprattutto oggi, in un’epoca in cui è la vita stessa a parlare un’altra lingua, con i suoi cambiamenti troppo veloci, una lingua diversa che ci preoccupa.

A Tokyo, città caotica, scintillante di luci e colori, come tante megalopoli moderne, Bob incontra per caso Charlotte, una giovane donna smarrita, sola, infelice. Come tanti esseri umani dei nostri tempi, essi passano notti insonni, persi nei labirinti dei loro angoscianti interrogativi sulla vita, sulle loro scelte, persi nella difficoltà di “tradurre” ciò che provano. E tuttavia ecco che il loro incontro occasionale diventa qualcosa in più, la solitudine che li opprime li spinge a conoscersi meglio, a comunicare davvero, a stabilire un sincero rapporto di amicizia e di affetto, a ritrovare se stessi.

Tanti visitano Tokyo, la megalopoli futurista del mondo postindustriale, con il suo brulicante mondo di dodici milioni di abitanti, brillante esempio di miracolo economico. Enorme con i suoi agglomerati, come tante piccole città nella Città, in cui al caos si alternano come per miracolo inaspettate oasi di tranquillità, come i giardini del Palazzo Imperiale e i parchi con antichi templi. Una città piena di contrasti: anch’essa forse si è “perduta nella traduzione”, una traduzione troppo veloce dall’antico al moderno?

Indubbiamente l’Oriente affascina ancora i viaggiatori occidentali e così il Giappone, come altri paesi del lontano Est, sempre più viene scelto come meta turistica. Cosa li attira in questi posti? L’esotismo, l’interesse per un mondo in trasformazione, il contrasto tra modernità e antiche vestigia del passato, templi e santuari sullo sfondo di grattaceli?

In Europa è senz’altro molto vivo l’interesse per tutto ciò che è “made in Japan” e tante sono le mostre allestite anche in Italia, come quella di Genova su “Geishe e Samurai. Esotismo e fotografia nel Giappone dell’Ottocento” (Palazzo Ducale, aperta fino al 25 agosto 2013). In quest’ultima 112 stampe fotografiche originali illustrano come i viaggiatori europei dell’Ottocento percepissero questo paese che, sotto la dinastia Meiji, si avviava ad uscire da un isolamento di tre secoli.

Immagini di geishe e samurai, di uomini e donne nei loro mestieri o riti sacri quotidiani, di lottatori di sumo o raccoglitori di riso, oggetti d’epoca, come vasi di altissima fattura, dipinti, stampe policrome, smalti, maschere teatrali, tessuti e costumi, ci mostrano come doveva apparire il Giappone allora agli occhi stupiti degli occidentali. Quanto è rimasto di quel mondo antico? Come si concilia oggi con lo strapotere economico che impone ritmi frenetici e ….. numerose centrali nucleari?

Dopo il disastro di Fukushima tanti avevano sperato in un cambiamento di rotta, ora purtroppo si sa che la scelta dell’ uso civile del nucleare è stata confermata dal premier nipponico Shinzo Abe, come qualcosa di inevitabile.

Il piano per il rilancio economico voluta da Abe cancella in effetti il precedente progetto del partito democratico, “Opzione zero”, che prevedeva il progressivo distacco dal nucleare nell’arco di 40 anni. Il via libera alla riaccensione di almeno una parte dei 50 reattori già esistenti sarà dato forse a luglio, dopo la verifica di una serie di nuovi requisiti; per di più pare che il governo voglia incrementare le esportazioni di impianti nucleari.

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Tsumami

C’è poco da stare allegri, soprattutto per chi teme il nucleare. E ci si chiede come mai i giapponesi continuino ad insistere sul suo uso, considerate le negative esperienze pregresse. Non sono bastati i devastanti bombardamenti atomici su Iroshima e Nagasaki, né lo tsunami e il disastro di Fukushima: niente riesce a fermarli! È strano che l’uomo non sia capace di apprendere dalla storia, dalle esperienze del passato.

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Gary Snyder

Il Giappone dunque non ricorda più i principi di una millenaria saggezza? E ci viene il dubbio che non sia solo il Giappone ad aver perduto la bussola, ma tutta l’Umanità, schiava di un’economia globalizzata che ha dimenticato il linguaggio del cuore e del buonsenso. Una “traduzione” davvero pessima.

Sembra invece interessante il messaggio di Gary Snyder, poeta ispiratore della beat generation e Premio Pulitzer nel 1975, che ha rilanciato l’impegno verso la protezione del pianeta. Egli sostiene che bisogna coltivare una forma “selvatica” di nonviolenza e di rispetto per la natura intera, due precetti silenziosamente presenti nella tradizione giapponese dell’haiku (breve poesia), da lui studiata negli anni trascorsi in Giappone per approfondire la filosofia buddhista.

Snyder si batte per preservare “ l’integrità del selvatico”, intrecciando costantemente suggestioni poetiche e passione per il territorio, ribadendo la necessità, sempre più attuale, di “una nuova religiosità che abbracci la natura e che non abbia paura della scienza; di leader economici che conoscano e accettino i limiti ecologici e spirituali, di leader politici che passino parte del loro tempo a lavorare nelle scuole, nelle fabbriche o nelle fattorie agricole e che magari (almeno alcuni di loro) scrivano ancora poesie”.

Nel rispetto di tali idee, ci sembra giusto concludere con un haiku del poeta Kobayashi Issa (1763-1828):

Che mondo,
dove i fiori di loto
vengono arati e trasformati in campo.

 

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