Rubrica: PASSATO E PRESENTE

Schleyer - un precedente del caso Moro?

L’incredibile parallelismo tra due attentati alla democrazia.
giovedì 22 maggio 2008

Argomenti: Storia

Il terrorismo degli anni 70 non fu un fenomeno limitato all’Italia, ma colse un po’ tutta l’Europa centrale ed operò su scala internazionale. Quando gli italiani seguirono paralizzati e angosciati l’evolversi del rapimento Moro, in Germania era già in atto una guerra spietata dello Stato contro i terroristi che avevano dato l’esempio per l’esecuzione del rapimento. Tut-tavia, i due casi non furono uguali…

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Trent’anni fa l’Italia visse una primavera nel segno del terrore: Aldo Moro, leader della Democrazia Cristiana, fu rapito dalle Brigate Rosse e, dopo quasi due mesi di prigionia, il 9 maggio 1978 fu trovato ucciso in una Renault 4 in Via Caetani a Roma. Il terrorismo aveva tentato di mettere in ginocchia lo Stato italiano e, se non ha potuto rovesciarlo, è comunque riuscito ad uccidere, assieme a Moro, la politica del compromesso storico, che per tanti era sembrata la via maestra per dare una svolta pacificatrice alla situazione tesa tra ceto operaio e ceto cattolico-borghese, le due anime della Repubblica. [1]

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Aldo Moro prigioniero delle BR

I Brigatisti motivarono la scelta di Moro come vittima con l’argomento che egli “…è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano…” [2], quindi un motivo che rispondeva alla tradizionale logica della lotta di classe più che allo scopo di impedire la presunta ‘corruzione’ del PCI da parte democristiana. La DC, secondo i terroristi, aveva interrotto la rivoluzione iniziata con la liberazione dal nazifascismo nel ’45. Sembra, quindi, che per loro era proprio uguale se rapire Moro oppure Andreotti, l’altro leader democristiano, molto più cauto riguardo alla politica del compromesso storico, ma altrettanto rappresentante del ‘regime imperialista’ vigente in Italia. La vittima avrebbe potuto essere anche Paolo Baffi, Governatore della Banca d’Italia, un altro fautore del compromesso storico, o Guido Carli, Presidente della Confindustria e noto anti-comunista.

Le motivazioni delle BR rientrarono, quindi, nel classico schema del comunismo rivoluzionario - anche nella loro dimensione internazionalista. Questo si era espresso già dalla sola ‘tecnica’ del rapimento Moro - che fu una vera e propria fotocopia del rapimento di Hanns-Martin Schleyer, avvenuto pochi mesi prima in Germania. Ma, prima di vedere l’incredibile parallelismo tra i due rapimenti, bisogna spiegare chi fu Schleyer.

Il terrorismo tedesco

Come Moro, anche Schleyer era un democristiano e persona di spicco del ceto imprenditoriale, in un certo senso la controfigura tedesca di Carli. Infatti, dal 1973 era presidente della Federazione Padronale, la Confindustria tedesca, e perciò un ottimo bersaglio per l’organizzazione terroristica tedesca di estrema sinistra, la RAF (Rote Armee Fraktion, cioè: “Fazione dell’Armata Rossa”) [3]. In più, Schleyer si prestava allo storico motivo dei terroristi della lotta antifascista, perché aveva un discusso passato nazista dal quale, in un’intervista televisiva nel gennaio del 1977, si era persino dichiarato orgoglioso - senza conseguenze per la sua posizione sociale. Allora per la RAF era diventato la vittima prediletta. [4]

La situazione politica in Germania invece era ben diversa da quella italiana. Innanzitutto un contro-terrorismo ‘nero’, di stampo neonazista, fu quasi assente, almeno in quel periodo; doveva assumere dimensioni significative solo dall’inizio degli anni 80. Quindi, a metà degli anni 70 la quasi esclusività del terrorismo in Germania spettava a quello ‘rosso’. Poi, non esisteva niente paragonabile ad un compromesso storico, già per il semplice motivo che non esisteva un partito comunista degno di essere menzionato e capace di influire in qualsiasi modo sulla vita politica.

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Il cancelliere Helmut Schmidt

Esisteva invece la DDR, nella quale molti simpatizzanti della sinistra videro ‘la Germania migliore’ (un interessante campo aperto di ricerca è l’intreccio tra la Stasi e il terrorismo stampo RAF). Nell’ovest, poi, i democristiani erano all’opposizione. Al governo erano invece i socialdemocratici con il cancelliere Helmut Schmidt [5]. Questi, tuttavia, sarebbe potuto anch’egli essere un ottimo bersaglio per la RAF, perché nel complesso la sua politica fu nient’affatto ostile al mondo imprenditoriale - e, quindi, diretta, secondo la RAF, contro la classe operaia, della quale pure i socialdemocratici erano la storica rappresentanza politica. Forse - con tutti gli ovvii limiti del paragone - il governo socialdemocratico era qualche cosa come un compromesso storico compiuto.

Come in Italia, anche in Germania alle origini del terrorismo ci fu la contestazione studentesca del ’68. Ma il colpaccio che diede inizio alla storia della RAF ebbe luogo nel 1970: Andreas Baader, condannato per essere stato, tra il ‘68 e il ’70, uno degli esecutori di una serie di attentati a bomba contro luoghi simbolo del capitalismo, fu liberato dal carcere di Berlino-Tegel in una spettacolare azione lampo, attuata da un comando guidato dalla nota giornalista Ulrike Meinhof [6].

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Ulrike Meinhof
nel 1964

Era nata la ‘banda Baader-Meinhof’, che, fino al giugno del ’72, avrebbe seminato un clima di terrore e paura senza precedenti in tutta la Germania, con rapine in banca e attentati a bomba contro istituzioni civili e militari tedesche e statunitensi. In una serie di sparatorie furono uccisi poliziotti e membri del gruppo e anche diversi innocenti. Meinhof fu la leader e ispiratrice intellettuale del gruppo, Baader lo spietato guerrigliero, figura con tratti del bel rivoluzionario romantico, quasi una specie di Che Guevara del Nord [7].

Diversamente dalle BR italiane, la RAF era passata sin da subito in uno stato di clandestinità e di scontro frontale con lo Stato. Ma non riuscì mai a trovare aderenze significative tra il ceto operaio - per il quale pretese di lottare. Sin dall’inizio, invece, ci fu un forte legame - ideologicamente piuttosto contraddittorio - tra la RAF e l’organizzazione palestinese Al-Fatah, nei cui campi in Giordania molti terroristi tedeschi, tra cui gli stessi Baader e Meinhof, furono addestrati per la guerriglia urbana.

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Andreas Baader & Gudrun Ensslin
nel 1970

Nel giugno del ’72, però, i capi del nucleo operativo della RAF, compreso sia Baader che Meinhof, ma anche Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe, Holger Meins ed altri, furono catturati. Ma il terrore non era affatto finito. Anzi, la fase più drammatica del terrorismo doveva cominciare proprio adesso, per finire soltanto nel 1977, con il cosiddetto ‘autunno tedesco’.

Presto gli arrestati si dichiararono prigionieri di guerra e denunciarono le loro condizioni nei carceri in varie città tedesche come ‘tortura di isolamento’. Ben dieci volte fecero lo sciopero collettivo della fame (uno di loro, Holger Meins, morì) per denunciare le loro disumani condizioni di prigionia - e l’opinione pubblica reagì con comprensione e persino una certa simpatia agli appelli dal carcere. Infine i terroristi riuscirono ad essere trasferiti al nuovo ergastolo di Stoccarda-Stammheim, dove gli fu permesso di avere contatti sorvegliati tra di loro.

La notorietà della loro causa - il maxi-processo al tribunale di Stammheim trovò un enorme riscontro pubblico - portò anche all’intervento di personalità quali il filosofo francese Jean-Paul Sartre [8]. Un incontro tra Sartre e Baader a Stammheim nel ‘74, però, finì in maniera piuttosto deludente; all’uscita, l’illustre filosofo definì il presunto combattente della causa leninista-marxista un “…Arschloch” (ital.: “stronzo”).

La ‘seconda generazione’

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Gli avvocati difensori Croissant Schily e Strobele

Ma non solo i terroristi della ‘prima generazione’ RAF si poterono coordinare in prigionia, ma, attraverso la pubblicazione di scritti e con ordini cifrati, portati fuori dal carcere dai loro avvocati difensori (ad alcuni di loro doveva essere revocato il mandato, perché la simpatia per i loro mandanti si era tradotto in aiuti concreti per la loro lotta) riuscirono addirittura a dirigere la riorganizzazione e le attività dei compagni in libertà. L’obbiettivo principale di questa ‘seconda generazione’ RAF diventò la liberazione della prima, con azioni sempre più spettacolari e mirati direttamente allo Stato.

All’inizio la strategia riuscì: nel febbraio del 1975 un comando rapì il candidato sindaco democristiano a Berlino; dopo una settimana il governo Schmidt decise di cedere, espatriando cinque prigionieri della RAF - seppur di secondo rango - nello Yemen; l’uomo politico fu liberato due giorni più tardi. Una volta tornati in Germania, però, i terroristi liberati riprenderanno quasi tutti l’attività terroristica [9].

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Ambasciata tedesca a Stoccolma

Solo un mese dopo, invece, un altro comando, denominato secondo il martire Holger Meins, occupò l’ambasciata tedesca a Stoccolma, in Svezia. Questa volta il governo tedesco fu deciso a rimanere fermo, e l’azione finì in un bagno di sangue; prima i terroristi uccisero due diplomatici, poi, dopo l’esplosione di una bomba, l’intero edificio s’incendiò. Durante l’assalto delle forze dell’ordine furono uccisi vari terroristi [10]. Nel ’76 fu arrestato l’ideatore dell’attentato, l’avvocato Siegfried Haag - difensore di Baader.

Ma i prossimi colpi furono già in fase preparatoria e, coordinati con ordini provenienti

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Omicidio di Buback Siegfried
Procuratore Generale dello Stato

dalle celle di Stammheim, poterono essere messi in atto anche senza il concorso di Haag. Il 7 aprile del ’77 un ‘comando Ulrike Meinhof’ - la Meinhof era stata trovata impiccata nella sua cella un anno prima, ma la tesi ufficiale del suicidio venne da subito contrastata da voci circa una uccisione su commissione dello Stato (tutt’oggi persistono dubbi sulle circostanze della sua morte) - il ‘comando Meinhof’ quindi uccise il Procuratore Generale dello Stato, Siegfried Buback, simbolo dello ‘Stato polizia’, e i due uomini della sua scorta, nella loro auto in mezzo ad una strada a Karlsruhe.

L’’offensiva 77’

Fu il segnale per la cosiddetta ‘offensiva 77’. Il 30 luglio la vittima fu un altro rappresentante del nemico di classe, il presidente della ‘Dresdner Bank’ Jürgen Ponto, ucciso nella sua casa. Una delle terroriste era una sua conoscente, figlia di una famiglia borghese con la quale i Ponto avevano amichevoli rapporti. Quindi il banchiere non aveva motivo di nutrire sospetti circa la visita della ragazza e dei suoi amici. Questi, invece, benché era stato previsto solo il rapimento di Ponto, a quanto pare lo avrebbero freddato all’improvviso, senza nemmeno tentare di prenderlo in ostaggio.

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Il luogo del rapimento Schleyer a Colonia

Colonia, 5 settembre 1977, ore 17.28: la Mercedes che deve portare a casa il presidente della Federazione Padronale, Schleyer, seguita da una seconda Mercedes con a bordo i tre poliziotti della sua scorta, entra in Via Vincenz-Statz; dopo pochi metri un’altra Mercedes, uscendo indietro dall’ingresso di un garage, si mette di traverso davanti alla macchina di Schleyer; questa frena, ma la macchina di scorta non reagisce in tempo e si urta contro l’altra, spingendola contro quella che blocca la strada; quattro terroristi, camuffati da pedoni con tanto di carozzella, cominciano a sparare all’impazzata - 119 colpi in un minuto e mezzo; l’autista, disarmato, muore per primo; mentre un terrorista trascina Schleyer fuori dalla sua macchina, l’assassino dell’autista corre attraverso l’area di tiro dei suoi compagni, salta sul fronte della macchina di scorta e da li spara tutta la sua munizione attraverso il parabrezza frantumato all’interno; un poliziotto viene colpito da 60 proiettili; gli altri due riescono a scendere dalla macchina e a sparare a loro volta - 11 colpi, senza centrarne uno; poi muoiono anche loro; Schleyer viene portato via con un’altra macchina parcheggiata fuori dall’area della sparatoria.

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Il luogo del rapimento Moro a Roma

Comincia la prigionia. Il capo dell’imprenditoria tedesca viene nascosto in un armadio, in un palazzone alto vicino l’autostrada a Erftstadt, vicino Colonia. Presto i terroristi - un ‘comando Siegfried Hausner’ (il nome di uno degli compagni uccisi a Stoccolma) - lo fanno parlare in un video, in cui appella al governo Schmidt di liberare Baader e gli altri capi della ‘prima generazione’ RAF, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, assieme ad otto loro compagni.

Succede l’incredibile: nei primi giorni della ricerca, estesa su tutto il territorio nazionale, alcuni poliziotti credono di aver individuato il covo e chiedono allo stato maggiore per dargli istruzioni. Alcuni agenti sono già posizionati davanti alla porta dell’appartamento, uno suona il campanello - dentro c’è Schleyer e alcuni terroristi, pronti ad ucciderlo e ad accogliere le forze dell’ordine con un arsenale di bombe a mano e armi da fuoco - ma lo stato maggiore non ritiene valida l’informazione e fa ritirare gli agenti. La ricerca continua altrove.

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Schleyer

L’individuazione del primo covo, comunque, fa che i terroristi si vedono costretti a cambiare nascondiglio. Portano Schleyer prima all’Aia, uccidendo un poliziotto olandese, poi a Bruxelles, dove rimane per la maggior parte della sua prigionia. Non gli fanno un processo, come più tardi i brigatisti con Moro, ma hanno con lui lunghi dibattiti su tutto il complesso della politica sociale e di questioni ideologici. Ogni qualche giorno i terroristi fanno una foto di Schleyer, sul fondo il simbolo della RAF, la stella a cinque punte e la mitragliatrice, e un cartello in mano, che indica i giorni che egli si trova nelle mani dei suoi rapitori.

I comunicati della RAF, però, non sono resi pubblici, e il cancelliere Schmidt decide di non cedere in nessun caso - anche al costo di sacrificare la vita di Schleyer. Un noto avvocato svizzero tiene il contatto con i rapitori, ma il governo cerca di guadagnare tempo, sperando di trovare il covo. Intanto il potere esecutivo in Germania viene trasferito ad un comitato interpartitico, sovrapposto al governo, che include anche rappresentanti dell’opposizione democristiana. La Germania Federale vive la sua crisi più grave.

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Brigitte Mohnhaupt
Capo della seconda generazione RAF

Passa un mese, ma la situazione non si sblocca. Bisogna aumentare la dose: allora Brigitte Mohnhaupt, ormai il nuovo capo della RAF, e alcuni compagni volano a Bagdad per incontrare gli amici palestinesi del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), pronti a dare il loro sostegno alla causa dei terroristi tedeschi. Si decide che un comando palestinese deve dirottare un aereo della Lufthansa. Forse per Schmidt la vita di un centinaio di turisti tedeschi vale più della vita del capo-imprenditore?

Il 13 ottobre quattro palestinesi dirottano la ‘Landshut’, in volo da Mallorca a Francoforte, con 91 passeggeri a bordo. La prima tappa è Roma-Fiumicino, dove i palestinesi trasmettono le loro richieste - identiche a quelle della RAF; poi, la sera stessa, l’aereo riparte per Larnaka, in Cipro; nella notte continua l’odissea, ma gli aeroporti di Beirut, Damasco, Bagdad e Kuweit non fanno atterrare la ‘Landshut’, che può fare scalo soltanto a Bahrein, poi a Dubai, da dove decolla il 15, dopo un giorno di nervose trattative, destinazione ignota.

Riappare nello spazio aereo dello Yemen, dove gira per diverse ore, perché le autorità non permettono l’atterraggio. I rapitori invece sperano di ottenere l’aiuto del regime comunista dello stato arabo. Nella notte - è il 16 ottobre - con il carburante quasi consumato, il pilota deve rischiare tutto e atterra senza permesso su una pista di sabbia accanto alla pista asfaltata dell’aeroporto di Aden. Si negozia, ma - a quanto pare dopo l’intervento diretto dell’Unione Sovietica, che non vuole essere coinvolta nella vicenda - il governo dello Yemen costringe l’aereo a lasciare il paese. Prima, però, i rapitori uccidono il pilota perché aveva tentato in tutti i modi di trasmettere all’esterno informazioni segrete sulla situazione dentro l’aereo.

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La Landshut ad Aden
Nella porta il pilota Jurgen Schumann poi ucciso dai terroristi

È il 17 ottobre, ore 1: diretti prima a Kuweit, i terroristi cambiano rotta in volo e raggiungono la capitale della Somalia, Mogadiscio, verso le 4 del mattino. Lì il cadavere del coraggioso pilota viene buttato fuori dall’apparecchio. Alle ore 15 scade l’ultimatum per la liberazione dei prigionieri di Stammheim. Solo dieci minuti prima il cancelliere Schmidt dichiara di voler espatriare a Mogadiscio Baader, Ensslin, Raspe e i loro otto compagni; si negozia per un prolungamento dell’ultimatum fino alle ore 1.30 del 18 ottobre, per poter effettuare il lungo volo da Stoccarda in Somalia.

Allora, alla fine il governo ha ceduto? Sin dalla sera del 13 ottobre, un altro aereo ha seguito l’odissea della ‘Landshut’, quasi tappa per tappa e, la sera del 17, anch’esso è atterrato a Mogadiscio. A bordo è il comando GSG-9, le teste di cuoio delle forze dell’ordine tedesche, pronte ad intervenire qualora fosse richiesto e la situazione lo permettesse. Poco dopo mezzanotte parte l’assalto; in solo sette minuti la GSG-9 riesce a liberare tutti gli ostaggi tedeschi e a uccidere i quattro palestinesi.

Alle ore 0.38 del 18 ottobre la radio tedesca trasmette la notizia della liberazione della ‘Landshut’. Anche Jan-Carl Raspe la sente al suo apparecchio nella sua cella a Stammheim. Alle 7.45 viene scoperto il suo cadavere; si è suicidato - con una pistola. Alle 8.07 viene scoperto il cadavere di Andreas Baader - anch’egli suicidatosi con una pistola. Nessuno ha sentito gli spari nella notte! Gudrun Ensslin si è impiccata con un cavo d’un altoparlante. Una quarta terrorista ha tentato il suicidio con un coltello, ma sopravvive.

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Mulhouse, 19 ottobre 1977
L’auto in cui si trova corpo senza vita di Schleyer

Fallito il tentativo di liberare i compagni della ‘prima generazione’, il ‘comando Siegfried Hausner’ uccide, dopo 43 giorni di prigionia, Hanns-Martin Schleyer. Nel pomeriggio del 19 ottobre trasmette un comunicato, nel quale si legge: “Dopo 43 giorni abbiamo messo una fine alla misera e corrotta esistenza di H.M. Schleyer. Il sig. Schmidt, il quale nei suoi calcoli di potere ha sin dall’inizio speculato con la morte di Schleyer, può ritirarlo nella Rue Charles Peguy a Mülhausen [in Francia], nel bagaglio di una verde Audi 100 targata Bad Homburg. Nei confronti della nostra rabbia e del dolore per i massacri di Mogadiscio e Stammheim la sua morte è insignificante. […] A Schmidt e agli imperialisti che lo sostengono non perdoneremo mai il sangue sparso. La lotta è solo iniziata. […]”

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Roma, 8 maggio ’78
il ritrovamento del corpo senza vita di Moro

La sera stessa in TV, il cancelliere dichiara guerra al terrorismo, con tutti i mezzi a disposizione dello Stato e con l’aiuto di tutta la popolazione tedesca. O con lo Stato, o con i terroristi; non ci sono più vie di mezzo!

Un parallelismo incompiuto

Il parallelismo tra gli eventi in Germania e Italia colpisce, soprattutto se si guarda all’aspetto ‘tecnico’ dell’esecuzione stessa, e anche l’obiettivo fu identico, cioè la liberazione di compagni in carcere in cambio dell’illustre ostaggio. Tuttavia, se si può dire che i brigatisti italiani si erano fatti ispirare dal metodo applicato dalla RAF, l’ulteriore evolversi dei due casi invece doveva necessariamente rispondere alle esigenze del momento e ai passi degli investigatori.

Soprattutto, il caso Moro non fu potenziato da una seconda azione, alquanto eclatante, per aumentare ulteriormente la pressione sullo Stato. Il dirottamento della ‘Landshut’ invece drammatizzò il caso Schleyer nella sua fase finale, internazionalizzandolo nello stesso tempo. Ciò fu reso possibile dallo stretto legame tra la RAF e i palestinesi, un elemento che ai terroristi italiani mancò. Ma, anche se le BR avessero avuto tali legami, dopo il fallimento del dirottamento della ‘Landshut’ non sarebbero riusciti a convincere i palestinesi una seconda volta in pochi mesi di mettersi al servizio d’un gruppo con obbiettivi rivolti all’interno del proprio paese e, in sostanza, ideologicamente piuttosto estraneo alla loro lotta.

Un’altro elemento che assimila i due casi è il ruolo delle forze dell’ordine, incomprensibilmente inefficaci nell’investigazione e nella caccia ai rapitori non solo in Italia, ma anche in Germania, dove si sfasciò il mito dell’efficienza e durezza della polizia. Se, in Italia, molti passi falsi potrebbero attribuirsi al complesso intreccio tra organi di stato, servizi segreti, mafia e gruppi d’interessi di vario genere, e, non ultimo, all’intreccio tra frange delle forze dell’ordine e ambienti del terrorismo ‘nero’, ai quali la sparizione di Moro non spiacque affatto, in Germania invece non è lecito parlare di volute deviazioni delle indagini. Certo, le dichiarazioni di Schleyer circa il suo passato nazista non erano certo piaciuti agli ambienti imprenditoriali e governativi, ma gli errori della polizia sembrano piuttosto dovute a trascuratezze e impreparazioni.

Incredibile invece sembra quello che successe nei carceri tedeschi, in particolare a Stammheim, l’ergastolo super-sorvegliato riservato appositamente per i terroristi della RAF. Che i prigionieri fossero in grado di costruire, sfruttando l’impianto radio del carcere, una vera e propria rete di comunicazione segreta tra le loro celle, che poterono portare fuori, ai loro compagni, messaggi e ordini per nuovi atti terroristici, che, nella notte del suicidio collettivo, Baader e Raspe avevano armi da fuoco, che nessuno abbia sentito i colpi, questi sono rimasti fino ad oggi i veri misteri del caso, che fanno apparire le forze dell’ordine e lo Stato stesso con i suoi servizi in una luce dubbiosa.

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In carcere di Stammheim
Dove è avvenuto il suicidio collettivo dei capi della RAF

Infine, un altro elemento distingue i due casi l’uno dall’altro: oggi, i fondatori e militanti delle BR, se non uccisi negli scontri con la polizia, sono tutti vivi, in carcere o fuori, scrivono libri e danno interviste; molti si sono pentiti. Le donne e gli uomini della ‘prima generazione’ RAF, invece, quando tramontò la possibilità di uscire dal carcere per riprendere l’attività terroristica, si sono suicidati. Altri tentarono il suicidio in carcere anche dopo il 18 ottobre ’77. Negli anni successivi, i capi della ‘seconda generazione’ furono man mano catturati, alcuni furono rilasciati dal carcere dopo molti anni, tra cui Brigitte Mohnhaupt, nel 2007. Non pochi ricercati della RAF, invece, trovarono rifugio nella DDR, e solo dopo il crollo del muro nel 1990 poterono essere arrestati e condannati [11].

Pochi furono invece i pentiti e perciò molti aspetti degli eventi a metà degli anni 70 e, in particolare, del rapimento Schleyer, sono rimasti al buio. Uno dei pentiti fu Peter-Jürgen Boock, uno dei protagonisti dell’’offensiva 77’. Anche se la sua credibilità è dubbia - gli ex-compagni lo accusano di opportunismo, i procuratori di un “rapporto tattico con la verità” - egli ha comunque rivelato molti particolari del caso Schleyer, anche il nome del suo presunto assassino - forse per discolpare se stesso? Oggi Boock è tornato in libertà, scrive libri e da interviste alla fiera del libro di Francoforte, un po’ come i suoi colleghi italiani… [12].

[1] Agostino Giovagnoli, Il caso Moro - Una tragedia repubblicana, Il Mulino, 2005; Roberto Bartali, Giuseppe de Lutiis, Sergio Flamigni, Ilaria Montoni e Lorenzo Ruggiero, Il sequestro di verità. I buchi neri del delitto Moro, 2008.

[2] Brigate Rosse, Primo Comunicato, 18 marzo 1978.

[3] Wolfgang Kraushaar (a cura di), Die RAF und der linke Terrorismus. 2 vol. Edition Hamburg, Hamburg 2006; Stefan Aust, Der Baader-Meinhof-Komplex. Hoffmann & Campe Verlag, Hamburg 2005.

[4] Lutz Hachmeister, Schleyer. Eine deutsche Geschichte. Beck: München, 2004.

[5] Hartmut Soell: Helmut Schmidt. Vernunft und Leidenschaft, Band 1. DVA 2003, 900 S.; Hartmut Soell, Helmut Schmidt. Macht und Verantwortung, Band 2. DVA 2005, 900 S.

[6] Jutta Ditfurth: Ulrike Meinhof. Die Biographie. Berlin: Ullstein 2007.

[7] Klaus Stern, Jörg Herrmann: Andreas Baader. Das Leben eines Staatsfeindes; München, Deutscher Taschenbuch-Verlag 2007.

[8] Angèle Kremer-Marietti, Jean-Paul Sartre et le désir d’être, 2005; Michel Winock, «Sartre s’est-il toujours trompé?», L’Histoire, n° 295, février 2005: Article critique sur les engagements politiques du philosophe.

[9] Matthias Dahlke, „Nur eingeschränkte Krisenbereitschaft“. Die staatliche Reaktion auf die Entführung der CDU-Politikers Peter Lorenz 1975. In: Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte 55 (2007), Heft 4, S. 641-678.

[10] Michael März: Die Machtprobe 1975. Wie RAF und Bewegung 2. Juni den Staat erpressten. Forum Verlag, Leipzig 2007.

[11] Ulf G. Stuberger, Die Akte RAF - Taten und Motive. Täter und Opfer. Herbig-Verlag, München 2008; Butz Peters, Tödlicher Irrtum. Die Geschichte der RAF. Argon-Verlag, Berlin 2004.

[12] Boock Peter Jürgen, Die Entführung du Ermordung des Hanns-Martin Schleyer. Eine dokumentarische Fiktion. Eichhorn-Verlag, Frankfurt 2002; Ulf G. Stuberger, Die Akte RAF – Taten und Motive. Täter und Opfer. München, Herbig-Verlag, 2008.



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