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Rubrica: PASSATO E PRESENTE

Centenario della disfatta di Caporetto 24 ottobre 1917

I seicento mila prigionieri dimenticati della prima Guerra Mondiale
domenica 12 novembre 2017

Argomenti: Celebrazioni/Anniversari
Argomenti: Guerre, militari, partigiani
Argomenti: Storia

Una pagina della nostra storia nazionale riscoperta dai media solo cento anni dopo per le rievocazioni della rotta di Caporetto, quando l’esercito austriaco tedesco sfondò le linee italiane e da Caporetto e si estese nella pianura veneta

La prima guerra mondiale, rimasta nella memoria collettiva del nostro paese come la guerra patriottica o la Grande Guerra andrebbe forse oggi, nel centenario, ricordata anche come la guerra in cui si verificò per l’Italia la più alta ecatombe di prigionieri internati. E ciò nonostante le convenzioni internazionali che, da quella di Ginevra del 1864 e le successive, si erano preoccupate di salvaguardare il diritto alla vita e alla integrità fisica e morale di chi si arrende o si trova fuori combattimento perché ferito.

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La "Grande Guerra" in trincea
Un inutile massacro - Complessivamente per gli Stati belligeranti 13 milioni di morti, 20 milioni di feriti e di mutilati

Ma il lato debole di queste convenzioni era che obbligavano solo gli Stati contraenti, non avendo valore cogente per tutti, non essendoci né una carta internazionale dei diritti né un’autorità supernazionale capace di farli rispettare.

Inoltre anche negli Stati che avevano aderito alle convenzioni, non sempre gli alti gradi dell’esercito e comunque l’elemento militare si mostrava permeabile alle concezioni del diritto umanitario. Non era facile smantellare una mentalità consolidata, fatta di durezza, di inflessibilità e fondata su una visione classista della società per cui la truppa, che proveniva dai ceti inferiori, era considerata alla stregua di una macchina da guerra, carne da cannone e comunque da trattarsi con poco rispetto della sua vita. Questa mentalità era purtroppo molto presente nel nostro esercito. Di conseguenza in questa ottica non si poteva avere che un malcelato disprezzo per il vinto, specie se appartenente alle classi contadine, considerato un debole, soprattutto se caduto prigioniero, essendo sempre possibile il sospetto che si fosse arreso vigliaccamente per rifiuto di combattere.

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Libro di Giovanna Procacci
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Libro di E. Forcella - A. Monticone

La stessa mentalità del resto che suggeriva al Comando supremo, per frenare il fenomeno della diserzione, di instaurare sui soldati al fronte, attraverso l’amministrazione della giustizia penale militare, un clima di inflessibilità e durezza, tale da diventare terrorismo (cfr. E. Forcella - A. Monticone, Plotone di esecuzione, i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, G.Procacci, op. cit., pagg. 50-69). Ricordiamo la Circolare telegrafica riservata n. 2910 del 1 novembre 1916, nella quale il generalissimo Cadorna autorizza, anzi ordina, le decimazioni, per reprimere un reato collettivo (“ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere un reato collettivo, che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili e, allorché l’accertamento personale dei responsabili non è possibile, rimane il dovere e il diritto ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte. A codesto dovere nessuno può sottrarsi ed io ne faccio obbligo assoluto indeclinabile a tutti i Comandanti”).

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Campo di Bayreuht 12 nov 1918

Eppure quelli che allora furono considerati ammutinamenti in realtà erano stati fenomeni di disobbedienza, rifiuto di obbedire ad ordini stupidi e suicidi, fatta eccezione per la ribellione della Brigata Catanzaro nell’agosto del 1917 in cui ci furono dei morti tra gli ufficiali e ci fu il successivo intervento dei carabinieri, negli altri casi la disobbedienza si era limitata ad esternazioni di protesta, schiamazzi notturni, rifiuto di imbracciare le armi, grida di abbasso la guerra. Tuttavia i procedimenti penali, conclusi o non conclusi, a guerra finita, ammontavano a 400.000 (poi amnistiati con regio decreto del 2.9.1919); le condanne a morte effettivamente eseguite 750, a fronte delle 500 della Francia e 346 della Gran Bretagna, che pure avevano avuto un anno di guerra più dell’Italia. Altri mezzi estremi di punizione e di intimidazione, cui si ricorse nei momenti critici della guerra, furono le uccisioni di coloro che indugiavano a buttarsi all’assalto e i massacri compiuti dalle mitragliatrici alle spalle degli attaccanti, fatte funzionare contro coloro che non avanzavano. Di queste stragi restano numerose testimonianze nella letteratura di guerra, ma, ovviamente, nessuna cifra ufficiale.

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Prigionieri italiani in Austria
Rivestiti alla meno peggio con le divise dei prigionieri morti anche di altra nazionalità.

Tornando alle condizioni dei prigionieri,
Dei 600 mila prigionieri italiani internati nei campi dell’Austria e della Germania moltissimi morirono in cattività, oltre 100 mila, cifra che non ebbe eguali in altro esercito alleato occidentale. Una storia che risulta completamente rimossa dalla memoria degli italiani ma che pure aveva interessato almeno 1 su 10 tutti i combattenti della I guerra mondiale. Questa storia è riemersa negli anni 90 del secolo scorso tra gli addetti ai lavori, grazie ad un libro documentatissimo della storica Giovanna Procacci (Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra con una raccolta di lettere inedite, I edizione E. Riuniti 1992) costruito sulle fonti conservate presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma e presso l’ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito e sui documenti delle due Commissioni di inchiesta, quella su Caporetto, relazione della Commissione d’inchiesta, Dell’Isonzo al Piave, 24 Ottobre – 9 novembre 1917, II Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, Roma 1919, e quella sulle violazioni del diritto delle genti da parte del nemico.

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Atti parlamentari
Commissione d’inchiesta sulla guerra italiana. Dall’Isonzo al Piave.
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Libro di Giovanna Procacci

Secondo i dati della Civ (Com. inchiesta violazioni diritto delle genti commesse del nemico,III, Trattamento dei prigionieri di guerra e degli internati civili, Roma 1920) dei 600 mila prigionieri solo il 3% erano ufficiali (19.500) di questi i morti sarebbero stati 550, quindi la mortalità altissima si registrò esclusivamente tra i militari di truppa perché evidentemente funzionò a vantaggio degli ufficiali una certa solidarietà di rango molto sentita negli Imperi di Austria e Germania e il trattamento loro riservato fu non comparabile a quello destinato ai militari di truppa. Nei campi degli ufficiali le condizioni divennero dure dopo Caporetto, non prima, questi fino ad allora non avevano avuto da lamentarsi per la fame che invece falcidiò da subito le vite dei soldati.

Il numero di prigionieri italiani, come abbiamo detto, ammontava a 600.000, ben più elevato di quello dei Francesi o degli Inglesi.

Dopo Caporetto, circa 300mila soldati
andarono a raggiungere gli altri 260.000 prigionieri italiani già detenuti nei campi austro-tedeschi, le condizioni di prigionia di questi ultimi furono se possibile ancora più gravose. Il percorso, un vero calvario, cominciava con marce estenuanti, nelle quali ufficiali e soldati avanzavano fianco a fianco, a guazzo nella melma. “Un disordine inestricabile regnava ovunque”, annotava un prigioniero. “Non esisteva più alcun coordinamento, né alcun ordine dall’alto. Ognuno avanzava di sua propria iniziativa, senza un obiettivo preciso e senza rendersi conto dell’immensità del disastro”. I campi del Friuli e del Trentino non costituivano che una prima tappa; il resto del viaggio era effettuato a piedi o su carri-bestiame, con razioni alimentari irrisorie.

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Militari italiani catturati durante la disfatta di Caporetto
Reclusi in un campo di prigionia a Cividale del Friuli (Archivio Corbis)

I prigionieri di Caporetto raggiunsero i loro luoghi di destinazione, sotto le invettive ostili o sardoniche degli abitanti delle regioni attraversate. La condizione dei prigionieri italiani era giuridicamente identica a quella dei loro alleati occidentali; ma i Francesi e gli Inglesi avevano però preso, nel 1915 e nel 1916, una serie di iniziative volte a modificare gli accordi in vigore, al fine di migliorare la sorte dei loro prigionieri, e di tali modifiche fecero godere i propri alleati belgi, rumeni, serbi e polacchi.

L’Italia aveva, al contrario, mantenuto in vigore le rigide disposizioni d’anteguerra e non si era allineata agli altri Stati nell’inviare direttamente viveri ai propri prigionieri, a seguito della dichiarazione delle potenze detentrici Austria e Germania di essere al collasso alimentare e di non poter quindi provvedere al sostentamento dei prigionieri. L’atteggiamento dello Stato italiano obbediva a una volontà politica intesa a mostrare all’opinione pubblica che lo stato di prigionia non era un’alternativa meno gravosa di quella della vita al fronte, e inoltre sui prigionieri soprattutto quelli di Caporetto, pesava il sospetto della diserzione.

Il generalissimo Cadorna aveva in quei giorni telegrafato al Governo:” L’esercito italiano cade non a causa di un nemico esterno ma di un nemico interno“. In Italia l’accusa di diserzione veniva notificata alle famiglie dalle autorità militari, il che comportava la proibizione di inviare pacchi di generi di conforto al prigioniero disertore, l’affissione di un cartello sulla porta di casa della famiglia e anche, a partire dal 1918, il rischio di confisca dei beni. Subito infatti alla famiglia del presunto traditore, nonostante la condizione di bisogno, veniva interrotta la corresponsione di quel pur modesto indennizzo di 60 centesimi al giorno stabilito con Regio Decreto del 13 maggio 1915.

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Generale Luigi Cadorna
Il responsabile della disfatta di Caporetto, secondo la Commissione d’Inchiesta parlamentare.

E’ vero che la pubblicazione degli atti dell’inchiesta parlamentare su Caporetto, a guerra finita nel 1919, scagionò in generale da questa accusa i prigionieri e ristabilì la verità delle cose (cfr. Procacci op. cit. pag. 360) ma allora era troppo tardi, i fari dell’opinione pubblica non erano più puntati su di loro. In quella relazione infatti, redatta dalla commissione composta dal generale Carlo Caneva, dall’avvocato generale militare Antonio Tommasi, dal senatore Paolo Emilio Bensa e dai deputati Alessandro Stoppato e Orazio Raimondo, si precisò che la responsabilità dello sbandamento non era stata delle truppe ma dei comandi militari e soprattutto dell’irrazionale conduzione della guerra da parte del Generalissimo Cadorna.

Le conclusioni della Commissione d’Inchiesta sono ancora oggi tra le denunce più severe e circostanziate nei confronti della tecnica militare e dei modi di governo delle truppe.

Ma ritorniamo ai prigionieri. Al loro arrivo nei campi i prigionieri erano felici d’essere sopravvissuti alle dure prove del viaggio di trasferimento ma, una volta passato quel breve momento d’euforia, la prigionia provocava un senso di forte depressione e il detenuto era ossessionato dall’indeterminatezza della durata della propria situazione. All’inizio della guerra gli ufficiali potevano scrivere quando volevano e i soldati quattro volte al mese, ma dopo Caporetto l’arrivo di migliaia di prigionieri impose delle restrizioni. Gli ufficiali non furono autorizzati a contattare le loro famiglie che dopo due mesi e i soldati più tardi ancora. Nelle loro lettere, i soldati chiedevano ai parenti di inviare loro viveri, mentre gli ufficiali reclamavano principalmente libri e vestiario. È appurato che la censura proibiva di lamentarsi della fame, della fatica e del freddo.

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Prigionieri italiani a Cividale

I soldati italiani dei campi di Germania e di Austria-Ungheria
erano costretti al lavoro forzato. Furono incorporati in compagnie formate dai 200 ai 300 uomini e inviati in gran numero verso i confini orientali degli imperi centrali. Erano usati per la costruzione di strade, di ferrovie o di fortificazioni; lavoravano in cave, in miniere di carbone, in altiforni. Erano talvolta ceduti ad imprese private, in condizioni di lavoro che permanevano penose, anche se la loro alimentazione, sempre comunque insufficiente, era senza dubbio meno peggio di quella nei campi. I prigionieri addetti ai lavori agricoli erano, invece, trattati relativamente meglio. Il freddo era un nemico terribile.

Nella Serbia occupata intere compagnie furono impiegate a spaccare il ghiaccio sul Danubio per mantenere aperta la circolazione sul fiume durante l’inverno del 1916. Gli uomini lavoravano semi-nudi, molti di loro scalzi, esposti alle percosse dei loro carcerieri. La destinazione più temuta era quella del fronte russo, dove i prigionieri italiani costruivano fortificazioni a temperature glaciali. Durante l’inverno del 1917 il freddo era talmente intenso in Germania e nell’impero austro-ungarico che la temperatura scendeva a dieci gradi sottozero nelle baracche, costringendo i prigionieri ad indossare sopra i propri gli indumenti dei compagni morti, anche quelli appartenuti a soldati di altre nazioni.

Accadeva così che le adunate per l’appello offrissero allo sguardo una moltitudine di uniformi della varietà più eterogenea. La malaria era un altro flagello che colpiva i prigionieri che lavoravano sui bordi acquitrinosi del Danubio. Soffrivano tutti atrocemente per la fame, col suo seguito di malattie e di turbe psichiche, tanto più che i furti di cibo erano all’ordine del giorno. L’attesa speranzosa di molti detenuti non era di una rivincita o della liberazione, ma piuttosto quella di un pacco di viveri, che non arrivava mai. Lo stimolo della fame contribuiva alla disumanizzazione dell’individuo. Il prigioniero poteva divenire spietato verso i suoi compagni di detenzione, litigare con loro e arrivare ad odiarli per un pezzo di pane, per una carota o una mezza patata. I prigionieri soffrivano anche di dissenteria, a causa delle insipide “brodaglie” spacciate per minestre che dovevano mandar giù, una vera ecatombe si verificò tra questi ultimi, non a causa delle ferite riportate in guerra ma per la sotto-nutrizione, maltrattamenti, edema da fame, tubercolosi ed altre malattie insorte a seguito delle diminuite difese organiche. (Cfr Michel Ostenc, GMCC “Guerres mondiales & conflicts contemporains”, n. 254 del 19/06/2014, pp.27-41)

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Rivista “Guerres mondiales & conflicts contemporains”, n. 254 del 19/06/2014

La Patria al rientro li rifiuta
Quando, dopo l’armistizio del 3 novembre 1918, gli internati italiani nei campi austriaci furono lasciati liberi, questi si precipitarono a piedi in Italia e, secondo i dispacci delle autorità di frontiera, erano in uno stato di allucinato disorientamento, apparivano trasognati, movendosi come automi, scheletri ambulanti, ricoperti di stracci. Essi seguitarono per lungo tempo a vivere l’esperienza della prigionia come un fatto irreale, una specie di incubo, cosicché a differenza dei reduci del fronte che si sfogavano nella memorialistica, nella reviviscenza delle imprese guerresche, si chiusero nel silenzio, non volendo rivivere, narrandole, le vicende vissute nei campi. A questo silenzio certo contribuì la certezza di non essere creduti. Così infatti affermava un sopravvissuto “… Non sarete creduti. Non saremo creduti, perché l’averli sopportati sembra un sogno a noi stessi” (cfr. S. Tacconi, Sotto il giogo nemico, Milano 1925 p. 176).

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Il libro di Sisto Tacconi

Il governo italiano preoccupato di questa massa enorme di uomini che rimpatriava, dopo averne prima ritardato il rientro, successivamente provvide a fermarli e a rinchiuderli ancora in campi di concentramento all’interno delle frontiere nazionali. Così il comportamento del governo anziché essere di doverosa assistenza fu di repressione, nella consapevolezza del potenziale eversivo da essi rappresentato a causa dell’abbandono di cui erano stati oggetto durante la guerra. Così infatti si legge in una lettera del senatore Giuseppe Frascara, presidente della commissione prigionieri, al ministro Orlando, riportata dalla Procacci (op. cit. pag. 218) “Quelli che si salveranno ritorneranno in Patria indignati per l’abbandono nel quale sono stati lasciati e saranno dei ribelli”.

Per questo motivo i prigionieri rimpatriati furono trattenuti ancora a lungo, per quasi un anno in una condizione non dissimile da quella della prigionia, per essere sottoposti agli interrogatori e alle indagini allo scopo di accertare il loro comportamento al momento della resa e verificare se fossero da considerarsi passibili del reato di diserzione.

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Il libro di Carlo Salsa

E questa fu l’accoglienza che la Patria matrigna pensò di riservare loro, “agli imboscati d’Oltralpe” come sdegnosamente li aveva definiti Gabriele D’Annunzio. In C. Salsa, Trincee Confidenze di un fante, Milano, 1982, p.257, si legge della cinica risposta del generale comandante della piazza di Trieste ad un sergente, che si lamentava per la fame e per il freddo e chiedeva del pane “per loro era disponibile soltanto del piombo e ciò ben stava a dei traditori della Patria”.

Su questo capitolo tragico e ambiguo della nostra storia nazionale, il regime fascista stese strategicamente una cortina di silenzio, della guerra si conservò solo un ricordo celebrativo patriottico, delle atrocità commesse dagli austriaci e tedeschi sui prigionieri italiani fu proibito parlarne poiché nel frattempo questi erano divenuti i nuovi alleati degli italiani. Parimenti si omise il racconto e il ricordo delle sofferenze patite dalle popolazioni italiane durante l’anno di occupazione austriaca e anche il numero elevatissimo delle perdite civili.

Così cancellato, nel corso di due generazioni, il ricordo di quella terrificante carneficina che era stata la I guerra mondiale (complessivamente per gli Stati belligeranti 13 milioni di morti, 20 milioni di feriti e di mutilati), gli italiani furono pronti ad assorbire il nuovo bellicismo mussoliniano e si lasciarono trascinare in un altro gorgo e in un’altra irresponsabile avventura.



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