Rubrica: ITINERARI E VIAGGI |
Sosta ad Odessa
TORNANDO DA MOSCALa cronaca di un breve soggiorno in Odessa
di
venerdì 14 marzo 2008
Argomenti: Luoghi, viaggi Argomenti: Ricordi Odessa, quanti ricordi. Fu l’ultima città che visitai quando nel ’61 tornai dall’URSS. Vi giunsi in un pomeriggio assolato, dopo ventott’ore di treno; avevo lasciato definitivamente la capitale ed Anatolij Vickov m’aveva accompagnato alla Kievskaja, aiutandomi a caricare i cinquantatré volumi della Grande Enciclopedia Sovietica. Man mano che il treno si spingeva nelle calde regioni, un nuovo paesaggio si presentava ai miei occhi: piccole case senza tetti inclinati come al Nord, panni a sciorinare, bambini a giocare negli orti, bancarelle, uva in abbondanza. A sera la gente si tratteneva fino a tardi; lungo le strade principali c’erano dei “bassi” con televisori accesi, le donne preparavano da mangiare e gli uomini erano seduti, in pigiama. Il ragazzo usciva con una bottiglia e si recava all’angolo della strada, presso il chiosco d’acqua gassata; a volte aveva una specie di selz che portava a caricare di gas. Erano gli ultimi giorni che trascorrevo in URSS; sentivo un certo rammarico a dover lasciare quel Paese; chissà se sarei tornato. Dopo due giorni la Latvija sarebbe salpata, riportandomi in Italia attraverso la Turchia e la Grecia. I pochi alberghi di Odessa, tutti costruiti prima della Rivoluzione e perciò in numero insufficiente, erano pieni di turisti stranieri e sovietici. Chiesi se l’Inturist di Mosca aveva riservato un posto per me e risposero di no. ( E non poteva essere altrimenti, perché non avevo dato nessuno incarico). Mi dissi sorpreso della dimenticanza e pregai di darmi comunque una camera, perché non avrei potuto dormire due notti su una panchina del parco. Andai così all’Hotel Krasnaja . A sera scesi nel ristorante; c’erano poche persone e l’orchestrina suonava. Piú tardi la grande sala si riempì e bisognava attendere per ordinare, mangiare, pagare. Sedevano a un tavolo, sulla sinistra, due africani; non riuscivano a farsi capire, perché parlavano solo inglese e la cameriera non conosceva quella lingua. Li aiutai: volevano due bicchieri di latte. La cameriera si consultò col direttore: per la prima volta aveva avuto una simile richiesta. Il direttore disse che poteva andare , ma c’era un’altra difficoltà: loro volevano mezza bottiglia, mentre il latte si vendeva a bottiglie intere. Feci rilevare che si trattava di stranieri e che si poteva fare uno strappo alla regola. Sedetti al loro tavolo e prendemmo insieme un caffè. Erano somali, imbarcati su una nave inglese che trasportava zucchero cubano in URSS. Mi dissero che nel porto c’erano molte navi provenienti da Cuba e che le operazioni di scarico venivano svolte con rapidità. M’invitarono poi nel club dei marinai, a pochi passi. Entrammo, c’intrattenemmo nel salone centrale. C’erano dei tavoli con giornali comunisti, dei divani. Seduti, degli ufficiali svedesi in conversazione con alcune ragazze. Cominciai a sfogliare un giornale, i due somali sedettero. Mi si avvicinò una ragazza e mi rivolse la parola in inglese; ci spostammo in un’altra sala, chiesi se la biblioteca fosse aperta. E lo chiesi in russo: non l’avessi mai fatto! Mi fu subito chiesta la nazionalità e risposi che ero italiano. Dopo poco venne una donna sui cinquanta con un’altra ragazza. La donna, puntando l’indice verso di me, le bisbigliò: eccolo là.
Si rivolge alla donna e le dice in russo: “ questo non é italiano”. Chiama il guardiano di turno e indispettita si allontana. Le altre ragazze, che avevano seguito il dialogo, pensarono bene di rivolgersi altrove. Arriva il guardiano, basso, dall’aspetto deciso.
Anticamera, presentazioni, spiegazioni.
Ritornai. Richiamai la ragazza che per prima s’ era avvicinata a me e le dissi: “Per cortesia, se incontri la tua amica, dille che quando uno sostiene di appartenere a un dato Paese, deve pur crederci; senza basarsi solo su ciò che le comunica la polizia, potrebbe continuare a fare cattive figure”. Prima di uscire, mi rivolgo al guardiano: “Compagno, cerchi di svolgere le sue funzioni con toni più urbani”. Per strada i ragazzi fermavano gli stranieri , chiedevano se avevano “business” e si dicevano pronti a trattare, a comprare; mi chiesero almeno dieci volte la giacca a vento in nailon. I parchi erano illuminati, le aiuole coperte di fiori, nessuno andava a dormire. Al teatro si rappresentava la Carmen. I cantanti facevano del loro meglio, ma avevano la voce ingolata e stridula. Gli spettatori appartenevano alla “haute” locale, con l’aggiunta di turisti di passaggio. Due ragazze si pavoneggiavano nei loro vestitini di cretonne con merletto agli orli; credevano di essere carine, credevano di essere eleganti e credevano di fare colpo. Proprio come le ragazze di paese, da noi, molti anni fa. Diritti di copyright riservati |