Rubrica: TERZA PAGINA |
Non volle tornare ... di
giovedì 5 aprile 2007
Ciajkovskij a PompeiLe Panatenee Pompeiane erano cominciate già da qualche sera. Ci sarebbero state tre sezioni, musica, balletto, opera. Ma il balletto fu cancellato all’ultimo momento, perché doveva venire dagli Stati Uniti e c’era paura di attentati. L’anno precedente un americano ebreo aveva fatto una brutta fine: sparato a bruciapelo e gettato in mare da terroristi libici. Il Mediterraneo era diventato zona calda; i Paesi che vi si affacciavano non davano alcuna affidabilità. Non mi ero dispiaciuto molto per la rinuncia dei ballerini, a me interessava sentire e rivedere il vecchio amico Slav Povic (Mstislav Rostropovich). Erano anni che ci eravamo persi di vista, da quando nel lontano ’61 avevo lasciato Mosca ed era iniziata per me una nuova vita nel mondo occidentale. La sera precedente aveva diretto Lorin Maazel e il pezzo forte era stata la Sinfonia n. 7 in la maggiore op.92 di Beethoven. Il Teatro Grande era quasi tutto pieno, un pubblico attento appassionato si era unito in un applauso fragoroso al Direttore, alla London Symphony Orchestra, all’Autore. Sì, perché quando si ascolta una musica divina e poi si applaude è giusto che il ringraziamento vada anche - e soprattutto - all’Autore. Ma solo una volta ho sentito gridare in modo preciso dall’alto di un loggione dopo una splendida Traviata di una eccezionale Renata Tebaldi: Viva Verdi! Un concerto all’aperto, i risultati possono essere validi come nel chiuso di un conservatorio? Dove si ascolta meglio la musica? Certamente non guardando l’esecuzione alla televisione, che ti distrae continuamente con inquadrature spurie e banali. Meglio nella propria stanza, ad occhi chiusi. Per la musica “en plein air” occorrono diverse variabili positive: il pezzo, l’orchestra, l’acustica, l’esecuzione, il pubblico. A Pompei avvenne il miracolo . Per la serata dedicata a Beethoven non potei non ricordare le sue lettere accorate, la sua disperazione. Ancora una volta ringraziai il Fato d’averlo fatto tanto soffrire, perché potesse farci tanto gioire. La sera seguente salì sul podio Slav Popic. Sì, il famoso violoncellista già premio Stalin, conosciuto in tutto il mondo. Quando cominciarono ad abbattere il muro di Berlino era lì col suo violoncello. Quelle note davano entusiasmo gioia speranza. Ma questa volta dirigeva. In programma c’era il Concerto n.1 in si bemolle minore per pianoforte e orchestra op.23 di Petr Ilic Ciajkovskij. Già un quarto secolo prima l’avevo ascoltato nella Sala Grande del Conservatorio di Mosca. Da allora i nostri incontri erano stati sempre cordiali ed affettuosi. Un uditorio attentissimo; persino gli spazi riservati alle autorità erano stranamente al completo. C’erano gli ambasciatori degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia, alti prelati, gran commis. Il giovane pianista attaccò con veemenza l’Allegro non troppo. Quanta tristezza e quanta malinconia. Venticinque anni fa avevo tante speranze, volevo andare in Occidente ed impormi come scrittore libero, perché da noi in Urss è estremamente difficile dire ciò che si pensa. Il Concerto lo ascoltai sull’onda dei ricordi. I singoli passaggi, fino all’Allegro con fuoco, scesero nell’animo e vi scavarono fossi profondi. Com’era vero quello che Ciajkovskij aveva scritto alla Nadjeshda von Meck: “La musica non è illusione, è una rivelazione. Proprio in questo consiste la sua forza vittoriosa: essa ci rivela una bellezza altrove inesistente” L’incontroDa alcuni anni non rivedevo Slav Popic. Aveva conservato il suo sorriso accattivante, il modo giovane di colloquiare, una solidarietà incondizionata. I flemmatici inglesi si mettevano in coda per il caffè caldo, espressamente preparato per gli orchestrali; un altro leggeva imperterrito il suo libro giallo sotto il chiarore fioco di un lume, vecchi amici si accalcavano presso il camerino del direttore e del pianista, per salutarli e congratularsi. Rividi Slav l’indomani, sul terrazzo del San Pietro a Positano. Mi chiese subito: “Come va, sei contento?” Non potevo essere bugiardo: “No, non sono contento, quando sono venuto via pensavo di conquistare il mondo, di affermarmi come scrittore, ma non ho avuto fortuna.” Come mai?
Nostalgia del proprio mondoQuesto pensiero fisso, questa decisione irrevocabile, passò per la mente dell’esule. Lasciò l’albergo e riprese la strada provinciale piena di auto in sosta; la gente cercava un po’ di refrigerio buttandosi a mare. Poco prima aveva elencato le cose che ormai gli mancavano. Ma aveva dimenticato il periodo più bello della sua vita di studente, gli anni trascorsi alla Moskovskij Gosudàrstviennij Universitiet. L’Università si ergeva sui Monti Lenin C’era un corpo centrale di trentatre piani con quattro blocchi laterali di venti piani. Dal mattino a sera tardi migliaia di studenti si recavano alle lezioni, ai seminari, alle palestre coperte e alle piscine, ai ristoranti normali e dietetici, agli uffici, alle lavanderie, alle stiratorie, agli ambulatori, all’ufficio postale. C’erano studenti russi, georgiani, chirghisi, tartari, lituani, estoni, mongoli, cinesi, africani: da tutto il mondo. I cinesi avevano fatto sapere alla propria ambasciata che lo stipendio ricevuto era troppo alto e perciò proponevano di raddoppiare il numero dei borsisti con lo stesso esborso di rubli. Studiavano intensamente, nutrendosi di pane nero e kefir. Al tramonto si accendevano le migliaia di luci delle camere-alloggio e sembrava un silenzioso tacito coro alla Scienza. Ogni sera, fino all’alba, mentre fuori la neve scendeva piano ed avvolgeva in un magico bianco gli alberi, i vialoni e le stelle rosse che illuminavano i piani più alti. .. A queste cose pensava l’esule. E poi...E poi, ecco, quella figura dolce dagli occhi verdi incontrata un mattino sull’autobus che lo portava verso via Gorkij, quella immagine sarebbe stata ancora tenuta dentro, dentro una testa che iniziava a girargli vorticosamente. Ricordava i primi giorni in Italia, dove gli era stato suggerito di fermarsi. Attese, speranzePiccoli lavori di traduzioni, incontri pieni di speranze, lunghe attese. Inviava un manoscritto ad un editore; a volte ce n’erano due, tre in giro. Prima arrivava una cartolina: abbiamo ricevuto il suo manoscritto. Era già una cosa. Gli scrissero Rizzoli, Mondatori, Feltrinelli. Le cartoline erano lì sul tavolo a fargli coraggio. Ma ingiallivano ... E cominciava, dopo sei mesi, a chiedere umilmente dove fosse andato a finire il manoscritto, o se per caso fosse ancora in lettura.; avrebbe anche aspettato, non c’era alcuna fretta. Passavano i giorni, le settimane, i mesi. Nulla. Nulla. Nulla. Un bel giorno gli era recapitato un pacco. I miseri resti di una speranza. Una via crucis. Apriva con dolore rabbia indignazione quel pacco, scioglieva lo spago ormai fattosi vecchio, rivedeva le pagine note, battute con amore. Il manoscritto era tornato da lui. Lo vedeva, gli faceva tenerezza, rabbia. Si accorgeva che invecchiava. Era triste tutto questo. Com’è triste per una mamma vedere la propria figlia: passano gli anni e nessuno la chiede in sposa. A chi avrebbe mandato quelle pagine? Perché, perché fin da ragazzo, gli era venuta la voglia di scrivere? E cos’era, una vocazione o una semplice infatuazione? Avrebbe fatto meglio a studiare musica, che pure gli piaceva, ad inserirsi magari nella Nomenklatura. Ora starebbe tranquillo. E, a pensarci bene, forse non aveva cose importanti da dire, anzi da scrivere. Tornare alla terraNon gli restava che tornare alla terra. L’unica cosa genuina che non l’aveva tradito, da quando era venuto in Italia. La terra che in primavera appariva ancora più bella. Come una conca preziosa che si avviava verso il mare e sul mare sorgevano dei ruderi secolari. Un mare dolce e limpido, troppo spesso solcato da grossi motoscafi rumorosi appariscenti d’arrivisti arrivati. Un mare a volte sporco, nemico. Ma così suggestivo ed eterno nelle notti di luna piena o quando era furioso arrabbiato. La conca si riempiva di margherite: tutte uguali, tutte gialle. Un giallo fantastico, da impazzire. Crescevano spontanee dappertutto, sui cigli, nei piccoli pianori, intorno agli alberi di pesche, albicocche, mandarini. Un suono di colori, una sinfonia. No, non sarebbe più tornato. Diritti di copyright riservati |