Spesso leggendo i quotidiani e ascoltando le drammatiche notizie dei Tg, il mondo ci sembra impazzito: la follia pura sembra essersi scatenata in un mondo a soqquadro in cui tutti gli ideali e i valori più alti e puri sembrano completamente cancellati tra gli orrori delle guerre e il prevaricare di diktat economici e interessi geopolitici. Non ci sono tregue, negati gli aiuti umanitari, colpiti gli ospedali a Gaza, colpite perfino persone che vanno in chiesa per i riti della Domenica delle Palme In Ucraina! E che dire delle guerre dimenticate che mietono vittime ogni giorno? È chiaro che ormai l’Umanità è giunta ad un bivio di cui da anni segnaliamo i pericoli legati alle scelte che faremo: sceglieremo la solidarietà o l’egoismo? La pace o una guerra mondiale? Procederemo insieme come fratelli in pace o moriremo tutti insieme come stolti? Lo disse anni fa M.L. king in un famoso discorso.
E purtroppo ora, come se ciò non bastasse, arriva anche la guerra dei dazi nel tentativo trumpiano di “smontare” i meccanismi della globalizzazione, in verità inizialmente certo non accettata facilmente nei paesi occidentali in cui le socialdemocrazie avevano elargito welfare, dignità e diritti agli onesti lavoratori. Poi iniziarono le delocalizzazioni in paesi del terzo mondo o in quei paesi in cui dittature e mancanza di sindacati e di regole da rispettare consentivano alti profitti e riduzione dei costi. Ed ora ci chiediamo dopo aver accettato sacrifici, dopo aver visto i nostri figli partire dal Sud d’Italia verso paesi stranieri, come si fa ora a ritornare al passato? Come si fa ora a smantellare un sistema in cui parti di varie merci vengono prodotte in differenti paesi e poi viaggiano in tutto il mondo dove ormai sono poche le produzioni nazionali che nascono e finiscono in loco, mentre abbondano gli “assemblaggi” qua e là? Sarà difficile ora combattere una grande potenza economica globale come la Cina.
I manager che lavoravano nelle aziende alla fine degli anni ’90 ricordano ancora un libricino dell’americano Spencer Johnson “Who moved my cheese” (Chi ha spostato il mio formaggio?), pubblicato in Usa nel 1998 e in Italia nel 2000 da Sperling&Kupfer: una favoletta messa in giro dal global village su due topi e due gnomi costretti a cercare formaggio per sfamarsi in un labirinto. Un giorno non ne trovano più e mentre i due topi si mettono in viaggio per trovarlo altrove, gli gnomi non si muovono si disperano perdendo tempo e rischiando di morire. Un chiaro invito a mettersi in viaggio e cercare il lavoro in altri paesi per non morire di fame, illustrando i vantaggi della globalizzazione, basata su free trade e deregulation, delocalizzazione della produzione di merci in paesi del terzo mondo e consequenziali effetti di mobilità, flessibilità, precarietà. Gli slogan usati erano lean and mean, less is more, cioè riduzione dei costi all’osso con fusioni di aziende e incremento dei profitti, sfruttando risorse di vario genere (incluse quelle umane) nei paesi poveri, sbattendo sul lastrico tanti lavoratori in Europa a dispetto di diritti faticosamente conquistati nel tempo.
Di tutto ciò trattò nello stesso periodo anche “No logo”, un saggio della giornalista canadese Naomi Klein, pubblicato nel 2000 sul fenomeno del branding, delle tecniche di gestione del marchio e delle sue ripercussioni sul mondo lavoro, nonché delle strategie di risparmio con le delocalizzazioni.
Di globalizzazione si occupò anche Edgar Morin, pensatore poliedrico che ha fatto del “tema della complessità” il cardine dei suoi studi. Morin auspica il ritorno ad un nuovo umanesimo attraverso un’etica della fraternizzazione e un nuovo assetto mondiale economico basato sulla solidarietà terrestre. Nei suoi libri come “Sette lezioni sul pensiero globale” e tanti altri, Morin afferma che dobbiamo affrontare i nuovi problemi posti alla convivenza umana da una interdipendenza mondiale irreversibile: una vera sfida, in un periodo come quello attuale in cui i principi fondativi della democrazia e del vivere comune sono minacciati e offesi e dove lo scontro tra civiltà potrebbe essere possibile. Senza dubbio la nostra epoca non è l’auspicata età dell’oro ma l’età dell’incertezza, tuttavia, se prenderemo atto delle nostre fragilità esistenziali e sociali ormai divenute planetarie, potremo forse cogliere la possibilità di una comunanza di destino e di una patria terrena comune, poiché ogni cultura non è fatta solo di aspetti negativi, ma anche di qualità e ricchezze.
“Mondializzare” dovrebbe dunque significare favorire le cooperazioni economiche, sociali e culturali, mentre “demondializzare”, potrebbe significare valorizzare le vitalità locali, regionali e nazionali: secondo Morin bisogna “mirare alle simbiosi culturali capaci di unire ciò che ciascuna di esse ha di meglio, operando una metamorfosi che leghi in modo indissolubile l’unità e la diversità umane”.
Sarà possibile tutto ciò oppure moriremo tutti insieme come stolti, come affermò M.L. king?
Giovanna D’Arbitrio