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"Cantare il disincanto"

il libro di Giulio de Martino
mercoledì 2 aprile 2025 di Nica Fiori

Argomenti: Recensioni Libri


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La parola “disincanto” indica, attraverso il prefisso “dis”, il contrario dell’incanto e quindi rappresenta, almeno apparentemente, il passaggio da una visione magica e incantata del mondo alla consapevolezza di vivere, senza più illusioni, in una realtà fredda e sgradevole, e talvolta tragica. Grazie a questa consapevolezza, espressa con parole e musica da cantautori quali Fabrizio De André, Luigi Tenco, Gino Paoli (per citare i più noti), sono nate delle canzoni indimenticabili che hanno segnato almeno due decenni del secolo passato.

Lo storico e giornalista Giulio de Martino nel suo ultimo libro “Cantare il disincanto. Disagio e malinconia nella canzone d’autore italiana negli anni del miracolo economico” (Manzoni Editore, 2025) ci parla della cultura musicale italiana nel periodo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Settanta, quando la nostra economia, dopo gli anni della ricostruzione postbellica, aveva compiuto un salto in avanti verso la modernità e la frontiera dei paesi più avanzati. Egli evidenzia, in particolare, come i cantautori più malinconici e disincantati abbiano saputo percepire luci e ombre della società italiana, in particolare nei primi anni Sessanta, “quando la musica leggera nutriva la smisurata ambizione di orientare i gusti e le idee del pubblico”.

Ancora prima dell’enorme successo dei Beatles, i “favolosi quattro” che avrebbero rivoluzionato il clima e il panorama musicale dei loro anni, determinando un’incredibile influenza sul costume e sulla moda, in particolare con i capelli lunghi, la libertà sessuale, il pacifismo e l’importanza del mondo giovanile che rivendicava una nuova aderenza al vero, anche in Italia alcuni musicisti si sono espressi con forme artistiche innovative e alternative.

Mentre sulle spiagge italiane dei primi anni Sessanta imperversavano le canzoni spensierate di Edoardo Vianello (“Pinne, fucile ed occhiali” del 1962, “Abbronzatissima” del 1963), Gianni Morandi (“Andavo a cento all’ora”, “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, entrambe del 1962), Rita Pavone (“La partita di pallone” o “Il ballo del mattone”, entrambe del 1963) e altri, cominciarono ad affermarsi anche i cantautori della cosiddetta “scuola genovese”, apparentemente in contraddizione con lo spirito del tempo in quanto cantori del “disincanto”. Costituita da Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi, Sergio Endrigo, Luigi Tenco, Fabrizio De André, questa scuola non necessariamente comprendeva cantautori realmente nati a Genova, ma era certamente genovese la loro melodia abbastanza lineare, se non addirittura scarna, e la raffinatezza dei testi, che s’ispiravano a modelli francesi (in particolare George Brassens).

I testi, espressi in un italiano colloquiale ma culturalmente elevato, descrivevano situazioni come l’emarginazione, la delusione, la sconfitta e in generale il disagio esistenziale, fino ad allora accuratamente trascurate per non turbare una società, una classe politica e una cultura piattamente conformistiche e rassicuranti.

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Presentazione del libro

Anche se divennero popolari, secondo de Martino alcune di queste canzoni erano “spesso fraintese”, evidentemente perché “l’ideologia edonistica e sentimentale del tempo faceva da velo all’esatta comprensione dei loro testi”. Ciò che veniva maggiormente apprezzata era la poesia di certi brani, come nel caso di “Il cielo in una stanza” (1960) di Paoli (paragonata da qualcuno all’Infinito di Leopardi) e “La canzone di Marinella” composta nel 1963 da De André, che comunque giunsero al grande successo grazie alla voce e alla forte personalità artistica di Mina, così come “Mi sono innamorato di te” del 1962 di Tenco fu portata anni dopo a grande notorietà dall’interpretazione di Ornella Vanoni.

Altre volte il successo era legato a una trasmissione televisiva, come nel caso di “Un giorno dopo l’altro” (1966) di Tenco, sigla di apertura della serie Rai “Le nuove inchieste del Commissario Maigret”. Altre canzoni rimasero sostanzialmente di nicchia, apprezzate dai fan di quei cantautori, che ovviamente acquistavano i dischi, ma raramente trasmesse alla radio, come nel caso di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, del 1963, scritta da Paolo Villaggio e musicata e cantata da De André, ritenuta troppo osé per il tema affrontato.

In un caso particolare una canzone divenne indelebile nella memoria di tutti, perché legata a un terribile fatto di cronaca, ovvero al suicidio di Tenco, avvenuto il 27 gennaio 1967 nel corso dello svolgimento del XVII Festival di Sanremo. “In un mondo di luci sentirsi nessuno …”, cantava tragicamente Luigi Tenco in “Ciao amore, ciao”, canzone interpretata anche dalla compagna Dalida, che anni dopo si sarebbe a sua volta tolta la vita.

Pensando al suicidio, non poteva certo sfuggire all’attento autore di questo libro l’amara storia d’amore del misterioso “uomo in frac”, che rinuncia alla vita elegantemente gettandosi nel fiume, da cui riemergono solo “un cilindro, un fiore, un frac”. La sua figura non viene descritta, ma solo lasciata intuire dal grande Domenico Modugno (nel 1955), che poeticamente sembra quasi allontanare la vicenda dalla realtà italiana, cantando alcune parole in francese (Bonne nuit, Adieu). Scrive de Martino: “La tragicità del gesto non deve atterrire o sconvolgere, ma far provare un brivido delicato, quasi fiabesco. È una favola nera, ma pur sempre una favola …”.

Il racconto luttuoso si trasformerà ancora in “una fiaba buia, ma comunque conchiusa”, in grado di trasmettere una fugace tristezza, nella canzone “Albergo a ore”, portata al successo nel 1969 da Herbert Pagani, che aveva adattato in lingua italiana “Les amants d’un jour” di Edith Piaf (1956). In questo albergo, come canta il narratore, due giovani amanti, che gli avevano chiesto una stanza, “Se n’erano andati in silenzio perfetto / Lasciando soltanto i due corpi nel letto / Lo so che non c’entro, però non è giusto / Morire a vent’anni e poi proprio qui / Me li hanno incartati nei bianchi lenzuoli / E l’ultimo viaggio l’han fatto da soli”.

Come spiega Giulio de Martino, la discronia delle “canzoni del disincanto” evidenzia l’audacia dei suoi autori e interpreti in un periodo in cui il mondo occidentale pensava di star vivendo un’intramontabile “età dell’oro”. La Musica leggera s’inseriva, con il ritmo e la melodia, nella vita interiore delle persone, diventando “un fattore di facilitazione e di adattamento nei confronti di una realtà economica e tecnologica in accelerato cambiamento”, ma fu allo stesso tempo “capace di indurre una sorta di controcanto rispetto agli eventi, di diffondere narrazioni alternative e momenti di riflessione all’interno del flusso tumultuoso delle esperienze”.

Pur contraddicendo gli inni all’amore e al successo, le canzoni del disincanto erano lontane dal moralismo e dal fervore di quanti si opponevano al consumismo e alle ingiustizie sociali (intento portato avanti dalla “canzone politica”), ma piuttosto volevano esprimere “la forza del dolore, la poeticità della sofferenza, la divergenza che erompeva da una sensibilità turbata”, traendo spunto anche da esempi d’oltralpe e d’oltreoceano.

Dopo un’accurata analisi storico-sociale del contesto che ha dato luogo all’estetica del disagio nella musica italiana (non necessariamente di scuola genovese) e ad approfondimenti sulle “Fenomenologie della canzone” (a partire da High-cult e Low-cult. Mid-cult e Mass-cult), quello che viene proposto in questo libro è un viaggio nella nostalgia della musica italiana, a partire da “Vecchio frac” di Modugno fino a “Sono solo canzonette” (1980) di Edoardo Bennato, esaminando in particolare i testi di Paoli, De André, Tenco, Francesco Guccini, I Gufi, Enzo Jannacci, Pagani, Piero Ciampi, Giorgio Gaber, Claudio Lolli, Endrigo, autori dei quali vengono tracciate anche le biografie.

Bisogna riconoscere che la scelta dei testi è molto interessante, perché vengono portate all’attenzione del lettore canzoni più o meno note, ma sempre di grande impatto: brani che in parte sono stati proposti musicalmente dal cantautore e performer Canio Loguercio in un coinvolgente monologo, nel corso della presentazione del volume a Roma nella libreria ELI lo scorso 28 marzo.

Il libro (pp. 272), pur concepito con un taglio scientifico, è assolutamente godibile e di scorrevole lettura. L’accurato saggio di de Martino, intitolato “Le parole del disincanto. La malinconia dei cantautori”, suddiviso in cinque capitoli, più Discografia e Bibliografia, è integrato dalla Prefazione dell’economista Salvatore Rossi, e dai contributi del musicologo Carlo Serra e del già citato Canio Loguercio.

 

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