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CHI FA LA STORIA? I POTENTI O I POPOLI?

Il mondo a soqquadro
domenica 23 febbraio 2025 di Giovanna D’Arbitrio

Argomenti: Storia


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DI fronte agli eventi davvero sconvolgenti della nostra epoca ci viene spontaneo porci delle domande su chi faccia davvero la storia e quanto potere reale abbiano oggi i popoli nel determinare i loro destini.

Vengono in mente i versi di una bella canzone di De Gregori che sembra ormai superata: “La storia siamo noi,/siamo noi che scriviamo le lettere,/siamo noi che abbiamo tutto da vincere e tutto da perdere./E poi la gente (perché è la gente che fa la storia),/quando si tratta di scegliere e di andare,/te la ritrovi tutta con gli occhi aperti,/che sanno benissimo cosa fare:/quelli che hanno letto milioni di libri/e quelli che non sanno nemmeno parlare;/Ed è per questo che/la storia dà i brividi,/perché nessuno la può fermare.

E ci chiediamo allora se ciò sia vero o qualcosa stia cambiando anche nei nostri civili e democratici paesi occidentali. Ci sembra davvero che il mondo sia stravolto, capovolto, tra sanguinose guerre e diktat di personaggi politici senza ideali, un mondo in cui la volontà dei popoli sembra non valere molto. Speravamo in un’Europa forte e coesa e ora la vediamo sempre più debole e condizionata da guerre e costretta a piegarsi alla volontà di grandi potenze come Usa, Russia e Cina. Senza dubbio i vichiani corsi e ricorsi storici sono sempre riscontrabili nelle vicende umane; tuttavia, le connotazioni di un’epoca imprimono diversità inconfutabili.

Intanto notiamo che l’attuale contestazione giovanile viene costantemente stroncata, sia che protestino per i mutamenti climatici sia per le stragi di civili a Gaza o altri motivi: oggi i giovani in generale sembrano piuttosto sfiduciati verso la politica e rinunciano spesso anche a votare, ritenendolo inutile poiché “tanto non cambia niente”. In Italia perfino la difesa molto pragmatica del diritto allo studio in vista di un futuro inserimento nel mondo del lavoro non suscita ormai tante proteste, poiché in fondo non incidono in modo fattivo: alla fine si preferisce arrangiarsi o emigrare all’estero.

Senz’altro i tempi cambiano, molto diversa ci appare ora la generazione degli anni ’60, in particolare del ’68: fu una vera e propria rivoluzione culturale dei giovani di tutto il mondo contro un sistema autoritario in politica, nella società, a scuola, in famiglia. Eppure, è difficile giudicare gli anni ’60 ed è pertanto sbagliato sia esaltarli che addebitare ad essi tutti i mali del presente: non abbiamo raggiunto ancora il giusto “distacco” per esaminare il fenomeno con obiettività. Come in tutte le rivoluzioni che si rispettino, ci furono eccessi, estremismi, pestaggi, violenze e morti. Tanti giovani, tuttavia, allora pensarono veramente di poter cambiare il mondo con gli ideali di libertà, pace, democrazia, istruzione estesa a tutte le classi sociali, lotta per i diritti dei lavoratori, presa di coscienza dei gravi problemi legati alla condizione femminile, difesa dei diritti umani e civili di popoli e razze.

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Indubbiamente dei risultati importanti furono raggiunti, ma poi chi inquinò e chi ancora oggi continua ad inquinare quegli ideali? Chi costantemente spegne il desiderio di rinnovamento che hanno i giovani di tutte le epoche? Quanti giovani di quei tempi sono stati integrati ed omologati e forse oggi sono diventati i peggiori denigratori di quegli anni? Quanti, purtroppo, diventarono terroristi? Davvero difficile dare una risposta a queste inquietanti domande. Credo, infatti, che ognuno abbia vissuto il ‘68 in modo diverso a seconda dell’età, della classe sociale, del suo particolare modo di essere. Ci fu il ‘68 dei giovani studenti borghesi, descritti da B. Bertolucci nel film The dreamers, quello delle classi più umili e degli operai, costretti a lavori alienanti, evidenziati da E. Petri in La classe operaia va in paradiso, quello dei laceranti contrasti in famiglia, narrati dal recente Mio fratello è figlio unico di D. Lucchetti, quello dei genitori e professori contestati e disorientati, che non riuscirono a comprendere gli eventi, e così via.

Anche la sottoscritta, benché fosse allora molto giovane, non sa dare risposte adeguate alle suddette domande, avendo vissuto gli anni ’60 in un modo molto diverso da altri che frequentavano ancora le scuole superiori o l’università. Nel ’68 mi sono sposata regolarmente in chiesa, già insegnavo in una scuola media statale di un quartiere povero e pertanto mi confrontavo con una dura realtà quotidiana. Ero, e sono tuttora, una persona tranquilla, di idee moderate, eppure non potei respingere il fascino di ideali così positivi. Essi, infatti, mi sono serviti per avvicinarmi di più ai miei alunni, per insegnare in modo più creativo, per dialogare anche con ragazzi più difficili e comprenderne i problemi, conquistandomi stima e affetto. Molte insegnanti, donne come me, seriamente impegnate nel proprio lavoro (nella scuola siamo sempre state tante per i bassi stipendi!) non hanno certo preteso un rispetto tradizionalmente inteso come imposizione dell’autorità legata al ruolo, ma quello derivante da un’autorevolezza guadagnata sul campo. Abbiamo utilizzato, inoltre, le nuove idee per stabilire anche in famiglia rapporti diversi, basati su dialogo e collaborazione, considerandoci mogli non certo inferiori ai mariti, lottando poi per le pari opportunità non solo tra uomo e donna, ma anche, in senso lato, per tutti i nostri alunni, per tutti gli esseri umani, rifiutando, infine, intolleranze, grette chiusure mentali e cupi dogmatismi religiosi, pur non rinunciando alla fede in Dio.

Senza dubbio i cambiamenti positivi sono conquistati sempre con processi lenti e faticosi, lacrime e sangue. Chi, dunque, “fa” la storia? Molti hanno tentato di dare una risposta a questa difficile domanda. Elsa Morante nel suo commovente romanzo, La Storia, ci mostra gli umili, le persone comuni, come costanti perdenti: essi subiscono la storia che è solo un perpetuo ripetersi di guerre, ingiustizie, egoismi e sopraffazioni. Una visione pessimistica, non manzoniana, non illuminata della fede in un progetto divino. Forse la soluzione va cercata a metà strada tra queste due interpretazioni della storia, una soluzione che potrebbe essere accettata da tutti coloro che credono in scelte “etiche”, anche se purtroppo sono atei. I potenti impongono decisioni e noi ci illudiamo di partecipare ad esse attraverso democratiche elezioni, almeno nei paesi più liberi, ma in realtà gli eventi storici spesso ci travolgono e noi non possiamo evitarli. All’interno di questo schema, tuttavia, ci rimane almeno la libertà di “reagire” agli avvenimenti, scegliendo di arrenderci o di lottare, di assecondare il sistema o di contrastarlo con soluzioni diverse e cambiamenti.

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Amir, il personaggio creato da K. Hosseini nel romanzo Il Cacciatore di Aquiloni, in un Afghanistan dilaniato da guerre, contrasti tra pashstum e azara, sunniti e sciiti, riesce a vincere la sua lotta individuale contro i condizionamenti di un’educazione sbagliata, discernendo tra verità e menzogna, amicizia e tradimento, coraggio e paura, fino a riscattarsi e ritrovare rispetto ed amore per sé stesso e per gli altri. Forse oggi non sono molti i “cacciatori di aquiloni” che lottano per il cambiamento positivo, ma anche se il sogno di un mondo diverso dovesse svanire sotto le picconate dei Potenti senza ideali, le nostre personali responsabilità nella scelta tra bene e male continueranno ad essere una realtà.

Giovanna D’Arbitrio

 

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