a cura di
Silvana Carletti (Dir.Resp.)
Carlo Vallauri Giovanna D'Arbitrio
Odino Grubessi
Luciano De Vita (Editore)
On line copyright
2005-2018 by
LDVRoma
Scritto e diretto da Andrea Segre insieme a Marco Pettenello, Berlinguer. La grande ambizione apre la Festa del Cinema di Roma e dal 31 ottobre sarà al cinema.
Un affresco storico e umano che esordisce con le immagini del Cile di Salvador Allende e l’assalto alla Moneda del 1973 per introdurci nel racconto del Segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer, ricostruendone filologicamente gli anni che vanno dal 1973 al 1978, cioè dall’attentato di Sofia da cui scampò per un soffio, al Congresso di Mosca del 1976 dopo il quale rinuncerà a qualsiasi aiuto dall’Unione Sovietica; dal tentativo del compromesso storico con Aldo Moro, al successivo rapimento e morte di quest’ultimo.
Anni cruciali e di crisi che l’Italia ha attraversato, anni difficili per un uomo come era Berlinguer, sostenitore di una politica intesa come servizio alla collettività per il bene comune.
Ne osserviamo l’azione politica, la frequentazione delle fabbriche, delle sedi del partito in tutta Italia, il desiderio di esserci, ovunque fosse chiamato, sempre con spirito ispirante, attento all’ascolto, ma propositivo, delineando il ritratto di un politico molto diverso dal narcisismo egoriferito di certi politici attuali ai quali ci siamo abituati.
Elio Germano offre un’interpretazione interiorizzata, empatica, mostrandoci un uomo dal carattere schivo e riservato, dall’intelligenza schietta d’intellettuale onesto, ispirato ai più alti principi democratici di umanità e dignità, che prende le distanze da quell’estremismo che si era poi tradotto nel terrorismo delle Brigate Rosse. Un politico la cui grande ambizione era trovare punti di convergenza con i suoi avversari, anche con quello che era stato fino ad allora il partito di governo, la Democrazia Cristiana, almeno con coloro ai quali si sentiva più vicino, questo certo non doveva piacere ad alcuni nel partito come pure a parte dell’elettorato.
Certamente fu un uomo amato e molto avversato, che la distanza temporale ha trasformato in un Mito. Quelli erano anni nei quali il Partito Comunista Italiano riusciva a raggiungere il 34,4% delle preferenze («Un italiano su tre vota comunista»), questo film riesce a restituirci l’atmosfera di passione e partecipazione politica miscelando sapientemente immagini d’archivio e ricostruzioni cinematografiche, in modo serio, mai ridondante o retorico con l’intento di parlare soprattutto a quelle generazioni che non lo hanno conosciuto, o ricordandolo a chi lo avesse dimenticato.
E’ un film che ha fatto sua la grande “Ambizione” del titolo, si rivolge ai cittadini della nazione, a quelli che hanno smesso di credere che le cose possano cambiare, a quelli che hanno deciso di non votare più e non partecipare, ci parla di un modo di fare politica quale impegno autentico, senza facili e illusorie promesse. Ci ricorda quanto sia importante lottare non in nome di un nostro interesse ma per il bene collettivo e anche solo per questo merita una visione.
“Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo”. A. Gramsci
L’uomo ci appare profondamente centrato nel suo presente, capace di accettare il confronto proficuo sia con le forze politiche avversarie che all’interno del proprio elettorato, consapevole di voler costruire un mondo socialmente più giusto, affrontando i rischi e le sfide. Ci viene raccontato non solo in veste di politico ma anche nei ruoli di padre, marito e figlio, rapporti di tenerezza nei quali fu altrettanto leale ed onesto.
Importante il contributo della famiglia per ricostruire il clima familiare attraverso i dialoghi con la moglie (interpretata da Elena Radonicich) ed i figli, dai temi quotidiani a quelli della politica. Berlinguer era un padre che sottraeva tempo alla famiglia ed era il primo a riconoscerlo, pur non riuscendo a sottrarsi alla passione politica, profondamente legato alla sua terra, al mare e anche a quelle piccole manie, come nascondere le banconote nei libri o l’abitudine del “latte”, fin da bambino, infatti, era solito portarne un bicchiere alla madre malata, nella convinzione che la potesse guarire.
Il cast è più che credibile, misurato ed equilibrato, non c’è traccia di caricature o maschere, da Roberto Citran nei panni di Moro a Pierpaolo Pierobon in quelli di Andreotti, da Fabrizia Sacchi nel ruolo di Nilde Iotti a Francesco Acquaroli in quelli di Pietro Ingrao ed a Giorgio Tirabassi nel ruolo di Alberto Menichelli, ritratti umani a tutto tondo che incorniciano la prova di Elio Germano in un’atmosfera realistica e convincente ad intensificare la sua naturalezza espressiva ed interpretativa in un ruolo nel quale, si intuisce, crede fortemente.
Il film glissa sull’ultimo comizio, ci risparmia la drammaticità di quelle ultime ore e si chiude con le immagini del funerale accompagnate da una musica corale che, come tutto il film d’altronde, è originale e firmata da Iosonouncane di grande respiro e impatto emotivo, pura commozione a dimostrare l’amore che aveva saputo conquistare nel cuore della gente e non solo del suo popolo.