CARBONIO CRISTALLO
Nel ventaglio degli incidenti quello automobilistico è probabilmente il più frequente. D’altro canto è un sogno scontato quello di effettuare un autostop, soccorrere durante una panne automobilistica. Comunque il racconto mi è venuto in mente e non c’è motivo perché non lo faccia.
La storia comincia la notte che andavo in macchina su un gran viale, quando da una stradina sbucò una motoretta che mi prese sul paraurti posteriore. Gran botto, frenata, rotolamento di quello che guidava il motociclo.
A parte tutti i fastidi, risarcimento dei danni, imbattersi in un matto etc., io sono un tipo riservato e non mi piace dare fastidio a nessuno, e non ne voglio in assoluto. Pertanto scesi già con la mano sotto l’ascella, linguetta sbottonata. Scrutai intorno, ma non ebbi l’impressione vi fossero altri oltre l’investitore. Stranamente, mista all’avversione, provai una ingiustificabile simpatia per costui. Devo dire che a me piace il nero: io vesto sempre così, la mia auto è nera, come la maggior parte dei mobili e oggetti di casa. Forse l’impalpabile simpatia scattò semplicemente perché vestiva una tuta tutta di pelle nera, sotto un casco nero, e nero era il motociclo.
Mi avvicinai lentamente, mentre quello lentamente si sfilava il casco. Rimasi folgorato. Era una donna. Ma che dico ? Era una dea, la donna dei miei sogni, quella che attendevo da sempre. La guardavo e basta. Non esisteva più il tempo e non c’era altro intorno oltre noi due. La guardavo fisso negli occhi, ma la percepivo dentro e fuori. Intelligente, vigile, nervosa, compatta, fianchi stretti, spalle larghe, un efebo, un androgine, insomma una meraviglia. E soprattutto… cosciente di essere cosciente.
Non so quanto tempo sia passato. Ad un certo punto intravidi le sue labbra muoversi. E disse: “Sono cintura nera”. La sua voce era siderea, è il suono che emettono le galassie ruotando nell’universo. Infatti non capii il significato razionale di quanto dicesse. Con una leggera intonazione, di quella che viene quando si spiega una cosa ad un bambino, soggiunse: “puoi togliere la mano dalla pistola, non faresti in tempo ad estrarla”.
Allora capii che dovevo ricalarmi nel concreto. Sfilai la mano dalla giacca, cercai di riappropriarmi del mio viso e – non capisco perché – chiesi: “Come è successo ?” Mi rispose: “perché, vorrai dire… comunque andiamo a vedere” e andammo. Vi sembra niente a voi. Alcuni metri insieme. Una vita. Un motivo per vivere tutta una vita. Arrivammo alla motoretta. Subito indicò alcuni punti, e disse “lo sapevo”. I tiranti dei freni erano parzialmente tranciati a mano, e quindi a forte sollecitazione si erano strappati.
“Ma è tentato omicidio” esclamai. “Certo” mi rispose, come se fosse la cosa più naturale. Nonostante le mie fantasticherie sono un tipo asciutto, insomma uno schizofrenico di qualità. Mi resi conto che ero dentro una faccenda fin troppo seria, di quelle che bisogna evitare. Ma in questo caso la questione non aveva più importanza: era la sua faccenda, e quindi era la mia.
Finalmente mi venne una domanda: “Cosa è necessario ?” Mi guardò, capì, sorrise. “Innanzi tutto devo ringraziarti. Investire la macchina mi ha fermato e fatto cadere senza gravi danni. Poi devi scomparire. Non puoi accompagnarmi perché potrebbero sopraggiungere ed ucciderti vedendo che mi stai aiutando. Io proseguirò a piedi”.
Nel giro di microsecondi feci una miriade di considerazioni, collegai, estrapolai, scelsi, decisi, e dissi: mettiamola così. Primo: adesso non c’è il tempo di spiegare a me di te ed a te di me. Secondo: non intendo separarmi più da te, sono disposto ad ucciderti io piuttosto che ridividermi. Terzo: ora c’è da affrontare la situazione per quella che è. Quarto: risparmiati di dirmi che tutto questo non è vero. Perché tutti e due sappiamo che ci siamo trovati…” “Ed era ora ! sbuffai.
Rise. I cieli risero, le tenebre, i soli, le cellule risero. Si avviò alla macchina. Salimmo e andammo.
A quel punto successero molte cose. Fummo raggiunti da tre macchine, 12 uomini. Una si mise davanti la nostra, una dietro, una accanto. Io estrassi la pistola dalla giacca, lei una da sotto la tuta di pelle. Io sparai alla macchina a fianco, colpii sicuramente quello accanto il guidatore, vidi lo spruzzo di sangue. Lei sparò alla macchina davanti: o prese le ruote o il guidatore, fatto sta che vidi la vettura schiantarsi contro un albero. Da dietro spararono con qualcosa. Si polverizzò il vetro posteriore e il parabrezza. Aveva il casco sulle ginocchia, e si macchiò di sangue. Reclinò la testa sul sedile, all’indietro. Rallentai accostando. Non provavo dolore né rabbia né speranza. Non provavo niente.
La guardai. Mi sorrise. Col pensiero disse “Ti aspetto”. Col pensiero risposi “Sì”. Le sorrisi. Morì. Sentii che il centro dell’universo usciva da quel corpo ed entrava in una piega dell’essere. Scesi dalla macchina, e mi appoggiai allo sportello. Arrivava gente a piedi, sentivo in lontananza clacson e sirene. Sto aspettando la Polizia. Sistemerò tutto, poi la raggiungerò. Non so bene come, ma so esattamente perché.
Lo so, questo è un racconto banale, romanticoide. Sì è narrativa di bassa lega. Il problema è che un cavallo alato è altrettanto ridicolo di un somaro che vola. Tuttavia certi animali dovrebbero esistere e non ci sono mentre altri che non dovrebbero esserci ci sono. Per questa ragione inventiamo storie dove i primi vivono ed i secondi scompaiono. Così per la vita: non accadono cose che dovrebbero, ne accadono altre che farebbero meglio a non verificarsi.
E noi inventiamo storie per aggiustare in qualche modo la vita, per poter sopravvivere quel tanto che si rende necessario.