L’esperienza dolorosa delle persone che, al termine della seconda guerra mondiale si sono trovate in Europa drammaticamente esposte ad una condizione di massimo abbandono è attentamente studiata da Silvia Salvatici in Senza casa e senza paese (Il Mulino, Bologna, 2009). Si tratta di milioni di esseri umani (nella sola Germania quasi 7) che subiscono una eredità di guerra spaventosa negli effetti pratici della loro vita.
Gli anglo-americani si erano apprestati ad affrontare il problema dichiarando “displaced persons” tutti i civili che si sono trovati fuori dai loro paesi per effetto della guerra, garantendo la tutela a quanti tra essi appartenevano allo schieramento anti-nazista, secondo una terminologia giudicata da H. Arendt peggiorativa rispetto a quella di “apolidi”. In misura specifica la questione riguarda gli ex deportati ai lavori forzati nella Germania. Si pensi ai milioni di persone che erano fuggite da Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda per sfuggire all’avanzata delle armate naziste e rifugiatisi in Francia. Analogo fenomeno per i profughi dei territori annessi dall’Urss nel ’39 e successivamente occupati dalle truppe tedesche. Si dirà che la moltitudine dei displaced è stata la “più pericolosa bomba a orologeria” lanciata da Hitler. Le Nazioni Unite, appena create, si sono subito occupate della vicenda di tutti questi profughi ed il libro ha il merito di seguirne le vicende attraverso gli interventi dell’UNRRA e poi dell’IRO.
Il flusso dall’Europa orientale sarà molto più ampio di quanto previsto e non riguarda solo gli ebrei. Tra l’altro riemergono delicati particolari di rivendicazione dei rispettivi diritti nazionali come nel caso degli ucraini. Sono fonti, dati e particolari sull’odissea di tanti singoli e di tante famiglie disperse e scomposte. Tra l’altro difficile definire i requisiti per essere considerati D. P. ed ancora più complicato chiarire tra i lavoratori presenti in Germania quanti fossero gli arrestati costretti ai lavori forzati e quanti i “collaborazionisti” volontari. Sono quindi innanzitutto problemi immediati di sopravvivenza fisica, di nutrizione, di alloggiamento poi di necessità di definire i rispettivi “status” dalle persone raccolte confusamente in caserme e baracche, case e fattorie, anche perché presto si imporrà una seconda fase, cioè definire dove tutti questi profughi dovranno trovare sistemazione definitiva.
L’A. mette in rilievo il ruolo svolto dalla Croce Rossa e da altri organismi di volontariato e gli ostacoli procedurali da superare per meglio chiarire le rispettive identità dei profughi. Dalla Germania sono restituiti ai singoli Stati 4 milioni e mezzo di persone, tra le quali moltissimi tutt’altro che disposti a seguire le direttive degli organismi preposti ai “rimpatri”. In particolare per i sovietici, o meglio, per le persone in precedenza sottoposte ad autorità dell’Urss, si frapponevano differenze di valutazioni circa la destinazione finale ad essi spettante. E contemporaneamente emerge l’urgenza di assicurare per i singoli un posto per lavorare onde poter diventare economicamente indipendenti, oltre ai personali travagli che racchiudono problemi individuali, familiari, politici, religiosi e morali. Tra il ’47 ed il ’51 oltre 700 mila profughi lasciano la Germani occidentale e vengono inviate in luoghi diversi da quelli di origine. Come infatti saranno accolti questi esseri umani “sradicati”? I più coraggiosi non esitano ad accettare anche destinazioni “lontane” come l’Australia. Sono pagine sconcertanti che aprono uno squarcio di luce su innumeri casi dimenticati. Altra pagina da esplorare è quella dei cittadini rientrati in Urss e sottoposti a indagini individuali molto penetranti sui loro atteggiamenti durante la guerra.
Così si mescolano storie individuali e tragedie collettive, mentre i “grandi” si spartiscono zone d’influenza, territori ed interessi.