Ripercorrere tante pagine di Claudio Magris (già lette quasi tutte sul “Corriere”), significa riflettere con maggiore attenzione sui temi scottanti dell’attualità storiografica (chiediamo scusa per questa specie di ossimoro) in quanto i temi della memoria di un passato onnipresente nella nostra coscienza suscitano sobbalzi non solo emotivi.
Lo stesso titolo del libro, La storia non è finita – pubblicato in una nuova edizione negli Elefanti di Garzanti – giustamente polemico con la famosa e discussa espressione di Fukuyama – contiene quel senso della continuità che il grande scrittore giuliano ha costantemente manifestato nell’affrontare argomenti letterari e politici, tenendo sempre a testimoniare, attraverso le sue opere, il valore di quell’eticità che sola può sconfiggere le menzogne diffuse spesso nell’informazione deviata, vivendo la prospettiva storica non come un maldestro tentativo di farsi giustiziera o tanto meno giustificatrice.
L’esperienza della seconda guerra mondiale, con le sue alleanze asimmetriche e le violenze scatenate nei differenti fronti e schieramenti, ha lasciato impronte difficilmente decifrabili. Nei confronti del male assoluto e idiota (usiamo parole di Magris) sono emerse assunzioni di responsabilità ma anche, al contrario, falsificazioni di cui avvertiamo tuttora, in Italia in particolare, gli effetti perversi. Ecco perché il frequente richiamo alla morale contro l’ipocrisia, alla pietà e al senso religioso contro la banalità del male. E tra i temi ripresi in questa raccolta di saggi ed articoli troviamo il concetto di “patria”, intesa in senso mazziniano, cioè un “amore” inseparabile da quello per l’Europa e per l’umanità. Non una degenerazione sconfinata nell’aggressivismo nazionalista e nelle grettezze egoistiche (sono anche queste osservazioni dell’autore) ma il senso di una identità fortemente connotata sul piano culturale (in un articolo ricorda a questo proposito il dalmata Trumbic), una peculiarità non separazionista. E mi hanno inoltre suscitato vibrazioni le citazioni di Giacomo Noventa – al quale ero legato da vincoli di familiarità oltre che di doveroso riconoscimento, da parte mia, di allievo rispetto ad un maestro – e di Ernest Bloch sulla vera patria che può essere solo un mondo liberato dall’ingiustizia e dall’aggressione, “un mondo – ammette amaramente Magris – che non esiste ancora”.
E viene allora di riflesso l’esigenza – possiamo sottolineare – di liberarsi dall’ “ombra del male assoluto” per considerare “senza ossessione” le nostre memorie, dalla guerra perduta alle speranze di una politica “dal volto umano” per il quale hanno combattuto Michnik ed Havel (di cui in questi giorni è stato pubblicato dall’editore Santi Quaranta il libro-intervista Un uomo al castello). E proprio Magris, nella sua produzione letteraria e critica di partecipe sensibile del nostro tempo, ha con quegli altri celebri protagonisti della cultura contemporanea la comune impersonificazione di una autenticità di concetti e di coerenza di un mondo mitteleuropeo, rappresentativo di quanto di più profondo sussista nella vita dell’Occidente.