Nato nel 1621 a Roma, dove pure morì nel 1691 dopo una lunga carriera artistica, Giacinto Brandi non è certo tra i pittori più conosciuti dell’Urbe, eppure può a ben diritto definirsi un “pittore di successo nella Roma barocca”. Il merito di aver studiato in maniera sistematica la biografia e la personalità artistica di Brandi va alla studiosa Guendalina Serafinelli, che ha pubblicato il catalogo ragionato delle sue opere, in due volumi raccolti in cofanetto, nella collana Archivi di Arte Antica di Umberto Allemandi (2015).
Quasi un decennio di studi, tra dottorato e postdottorato, sono stati dedicati alla realizzazione di questa monografia, che è stata preceduta da una serie di contributi sul pittore che la Serafinelli ha iniziato a pubblicare a partire dal 2007; in particolare ha fatto luce sul luogo di origine del pittore, che prima si pensava fosse Poli o Gaeta, mentre i documenti d’archivio da lei trovati ne attestano la nascita a Roma il 23 febbraio del 1621 e il battesimo nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Una scoperta indubbiamente importante, perché i pittori romani non sono tanti e varrebbe la pena, soprattutto per chi a Roma ci vive, approfondirne la conoscenza. Brandi ha lavorato in importanti chiese romane (S. Ambrogio e Carlo al Corso, S. Carlo ai Catinari, S. Silvestro in Capite, S. Andrea al Quirinale, Gesù e Maria e altre), come pure in molte sale di palazzi aristocratici (Palazzo Pamphilj a piazza Navona, Palazzo Taverna a Montegiordano e altri) e, anche se non può rientrare nella cerchia dei grandissimi innovatori della sua epoca, ebbe apprezzamenti molto lusinghieri da diversi colleghi, in particolare da Mattia Preti.
Ma ebbe anche una critica “spesso ingenerosa” nei suoi confronti, come fa notare la Serafinelli. Al di là della stroncatura della pittura barocca, che ha riguardato un po’ tutti i pittori del Seicento prima della loro rivalutazione novecentesca, c’è stata la biografia di Lione Pascoli, stesa nella prima metà del Settecento, che ci trasmette l’immagine di un pittore introverso e sensibile al denaro, interessato all’arricchimento personale anche a scapito della qualità del suo lavoro. In realtà, anche se negli affreschi non sempre raggiunse livelli altissimi, nelle pale d’altare e nei quadri da cavalletto la qualità è notevole. Comunque i documenti inediti rintracciati dalla Serafinelli smentiscono o ridimensionano alcune affermazioni del biografo settecentesco e dimostrano che Giacinto Brandi fu un personaggio di rilievo della cultura figurativa del Seicento. Tra l’altro ricoprì anche incarichi onorifici importanti, come quello di Principe dell’Accademia di San Luca nel 1668 e nel 1684.
Giacinto Brandi visse in un periodo che, a dispetto della fame, delle guerre e delle carestie che affliggevano il popolo, coincise con una sorta di età dell’oro dell’arte, della quale Roma era la capitale indiscussa, punto di convergenza di artisti provenienti da ogni parte dell’Italia e d’Europa, tutti apportatori di nuovi stimoli creativi. Tra i maestri del giovane Brandi troviamo lo scultore bolognese Alessandro Algardi, il pittore pure bolognese Giovan Giacomo Sementi, seguace di Guido Reni, e il parmense Giovanni Lanfranco, dei cui modi Brandi diverrà il migliore interprete e continuatore.
Ed è proprio a Lanfranco che pensiamo osservando il primo dipinto in catalogo, San Pietro (Ascoli Piceno, Pinacoteca civica), che ricorda molto da vicino Sant’Andrea inginocchiato davanti alla croce di Lanfranco (già collezione Giustiniani e ora nella Gemäldegalerie di Berlino). Si tratta di un quadro che, eseguito nel 1638 (datazione retrodatata dall’autrice rispetto a quanto sostenuto in precedenza da altri studiosi) all’età di soli 17 anni, già “preannuncia alcuni degli aspetti che diverranno caratteristici della sua poetica, uno su tutto, la pittura di impronta devozionale”.
In effetti sfogliando il catalogo incontriamo innumerevoli opere raffiguranti santi e scene di arte sacra, come per es. La Morte della Vergine (Tarquinia, Duomo), l’Estasi della beata Rita da Cascia (Roma, Chiesa di Sant’Agostino), Il Martirio di Sant’Erasmo (Gaeta, cripta del Duomo), Il Martirio dei Santi Quaranta di Sebaste (Roma, Chiesa delle Santissime Stimmate di San Francesco), una pala d’altare del 1662 che segna la sua maturità artistica, sapientemente orchestrata com’è su “un gioco di diagonali, di ritmi contrapposti, di movimenti espansi e contratti, di illuminazioni violente e di definitiva oscurità”. Su questo capolavoro vale la pena di soffermarsi anche per l’originalità del soggetto: infatti rappresenta l’episodio relativo ai 40 soldati romani, accomunati dall’appartenenza alla Legio XII Fulminata (“che fulmina”), che furono arrestati nel 320 per la loro fede cristiana ed esposti nudi su uno stagno ghiacciato presso la città di Sebaste (nell’attuale Turchia).
I dipinti di Brandi, come del resto di altri suoi contemporanei, mostrano il rinnovamento dell’iconografia sacra nel Seicento: abbondano gli episodi della vita dei santi che esaltano la vicinanza con Dio e quindi le visioni, le estasi mistiche, le ascensioni al cielo e i cori angelici. Grazie alla forza evocativa delle immagini, il nuovo linguaggio figurativo del barocco trasmette il messaggio dell’ecclesia triumphans: una chiesa che ha superato il momento critico della Riforma e, cosciente della forza dei valori definiti dal Concilio di Trento (1545-1563), impone un’arte potente, emotiva e teatrale, che, capovolgendo tutti i canoni preesistenti, commuova e persuada l’osservatore.
Nell’opera di Brandi troviamo anche scene mitiche e allegoriche, come quelle raffigurate a olio su grandi tele a Palazzo Taverna a Montegiordano (Minerva e le Muse, Fortuna e dormi, Supplizio dei Titani e altre) ed episodi biblici, tra cui Lot e le figlie (Ariccia, Palazzo Chigi, Collezione Lemme), scelto per la copertina, che ci colpisce per la sua sensualità. Il dipinto, databile al 1684-85, raffigura il momento in cui il vecchio Lot sta per essere sedotto dalle due figlie che vogliono così assicurarsi una discendenza, in seguito alla distruzione delle città di Sodoma e Gomorra e alla trasformazione della di lui moglie in statua di sale. E qui mi viene spontanea una domanda che io porrei al dio della Bibbia: come è possibile che un personaggio a mio parere negativo come Lot (basti pensare che propone agli abitanti di Sodoma, che vorrebbero congiungersi con gli stranieri che egli ospita, le sue figlie vergini, dicendo che possono farne quello che vogliono, ovvero stuprarle) sia l’unico uomo sopravvissuto alla distruzione della città? E se la sodomia è un peccato, l’incesto non lo è forse altrettanto?
Opere d’arte come questa sono preziose perché con la loro potenza espressiva ci stimolano ad approfondire la nostra conoscenza dei testi sacri, dei miti, o dei capolavori letterari, e a porci anche delle domande che esulano dalla storia dell’arte. Indubbiamente la lettura della monografia su Brandi si raccomanda perché l’autrice, che pone a fondamento del suo lavoro di ricerca soprattutto un’attenta e meditata indagine delle fonti documentarie e la diretta visione delle opere, colma una lacuna e ridà visibilità a un pittore di talento.
Il catalogo ragionato, ordinato in successione cronologica, è arricchito da notizie di archivio, da raffronti con testimonianze grafiche e bozzetti, ed è aggiornato e integrato da un significativo numero di dipinti inediti. Il lavoro è corredato da quattro appendici documentarie e dagli apparati che comprendono bibliografia e ben tre indici (iconografico, onomastico e toponomastico), così da renderne più agevole la consultazione.