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Copertina del libro

CORRADO GIAQUINTO E I PITTORI PORTA (Rotary Club Molfetta, 2011)

Un caso dimenticato : LA FORMAZIONE DI UN TALENTO IN UNA BOTTEGA DI PITTORI MERIDIONALI.

Una famiglia di pittori tra arte e mestiere
sabato 1 giugno 2013 di Pietro di Loreto

Argomenti: Arte, artisti
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Pietro Amato


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Se è vero che il tempo in cui viviamo sembra voler annullare le tracce meno appariscenti delle esperienze passate , il nuovo libro che Monsignor Pietro Amato, direttore del Museo Storico Vaticano, ha dato pochi mesi fa alle stampe, ha il merito di restituire alla nostra memoria una vicenda artistica del settecento italiano considerata ‘minore’ ma certo non priva di significati. (logo)

L’obiettivo dichiarato della pubblicazione, come scrive lo stesso autore, è “quello di far decollare gli studi sui Porta, un’illustre famiglia di pittori molfettani, composta da almeno cinque artisti documentati, che girano intorno a Corrado Giaquinto”.

Amato, com’è noto agli addetti ai lavori, oltre ad essere considerato tra i massimi esperti di Corrado Giaquinto (fig.1) il grande artista meridionale (Molfetta, 1703 – Napoli, 1766) , che fu attivo nelle più grandi città italiane nonché primo pittore di corte a Madrid a metà del Settecento, ed esponente tra i più acclamati del rococò internazionale, è in verità uno studioso a tutto tondo, le cui competenze straordinarie spaziano dall’arte romanica ( fig.2) a quella barocca, da quella neoclassica a quella contemporanea (è lui l’ideatore della Biennale Internazionale di Pittura Scultura e Ceramica che si tiene a Grottaglie – fig.3), oltre ad essere conosciuto come iconografo e iconologo, se non anche museografo e museologo; insomma un vero erudito, un intellettuale a trecentosessanta gradi, capace di ricostruire, in questa monografia, fin dove gli è stato possibile tramite l’acquisizione di nuovi documenti che possono peraltro fornire validi punti di riferimento per approfondimenti successivi, le vicende personali e artistiche dei membri della famiglia Porta.

La validità del suo lavoro consiste a nostro avviso tanto nella completezza dell’analisi, quanto nella esemplare capacità di cogliere i nessi culturali e artistici che improntano, nel loro percorso specifico, le opere dei Porta, e allo stesso tempo di registrarne dapprima l’influenza che gli esponenti della prima generazione, per così dire, cioè Saverio e Giuseppe, ebbero come ‘maestri’ di Giaquinto, e poi i debiti che i due della seconda generazione, cioè Nicolò e il fino a ieri misterioso Felice, maturarono col più illustre concittadino, ma anche le relazioni reciproche, che li delineano come le tipiche figure di ‘professionisti’ della pittura, con esiti a volte per qualcuno di loro molto interessanti altre volte meno.

Le fonti antiche tramandano che il grande Giaquinto “prese li primi principij della pittura “ proprio “sotto Saverio Porto Maestro Pittore” (il cognome Porto si sarebbe trasformato via via in Porta) del quale in effetti poco sappiamo sia della sua vita che della formazione; e tuttavia egli fu “fondamentale” –come scrive Amato- se non altro per aver avuto come discepolo Corrado Giaquinto, la cui dipendenza giovanile dal suo ‘fare’ pittorico appare inequivoca se appena si confrontano la due versioni della Madonna della Pietà dipinte una dal Porta, ora nel Museo diocesano di Barletta (fig.4) e una da Giaquinto, in collezione privata romana (fig.5)

Ma ruoli importanti nella vicenda umana e artistica del maestro molfettese ricoprirono anche gli altri esponenti della famiglia Porta; come Giuseppe , nipote di Saverio, con cui Giaquinto ebbe modo di collaborare e che fu il suo secondo maestro e come, successivamente, i figli dei due : Nicolò, figlio di Saverio, e soprattutto il misconosciuto Felice, figlio di Giuseppe. Non a caso una delle grosse novità del libro di Amato consiste precisamente nell’aver dimensionato questa inedita figura di artista, individuandone lo stile e le caratteristiche che ne fanno uno dei migliori interpreti della poetica giaquintesca.

Sarà proprio lui, come potremo capire dalla attenta ricostruzione di Amato, ad avere i più stretti rapporti col Giaquinto e ad assimilarne i canoni e il ductus pittorico al punto tale da essere scambiato per il maestro, com’è accaduto fino a tempi recenti con la tela della Pentecoste della Pinacoteca di Propaganda Fide (fig.6), da sempre assegnata al primo, ma in cui un recente restauro ha fatto riapparire la data e la firma di Felice; tanto che “non poche opere del Maestro – sottolinea Amato- … entrano in nuova considerazione” al punto da dover addirittura considerare che si debba operare “la revisione dei rispettivi cataloghi”.

Giuseppe Porta (Molfetta 1693 – 1749) è ritenuto, come si diceva, l’altro maestro di Corrado Giaquinto (le fonti tramandano che questi “fu pittore di Giuseppe Porta”) e senza dubbio in questo senso ebbe un ruolo maggiore rispetto a suo zio Saverio . Infatti, ricostruendone la vicenda, Amato ne individua gli stretti legami con l’ambiente e la scuola pittorica napoletana che “era allora straordinaria, tra le migliori in assoluto in Italia”, dove via via si erano affermate “le interpretazioni del calabrese Mattia Preti” , nonché “ le luminosità di Luca Giordano e di Paolo De Matteis” fino al “revisionismo di Francesco Solimena che portava a termine una vera e propria sintesi in chiave classica di tutte le esperienze barocche partenopee”.

Oltre che le “conquiste di Mattia Preti” fu soprattutto l’arte di Paolo De Matteis -che potè studiare proprio a Molfetta- fondamentale per il Porta; con la sua pittura di tocco e con la sua tavolozza avvolgente, il pittore salernitano dovette certamente imprimersi nelle scelte dell’artista, come poi sarà per il suo allievo Giaquinto.

Di Giuseppe Porta, Amato ripercorre le vicende esistenziali, con il matrimonio nel 1714 e la nascita dei figli Giuseppe (divenuto sacerdote ma morto tragicamente in età giovanile) e Felice, che poi diverrà pittore, così come sarà pittore un altro figlio, Anselmo, settimo di altri dieci! Ma quello che interessa approfondire è l’iter artistico, pur sempre prestigioso ancorchè legato a committenze locali, che Amato delinea in modo esemplare, arrivando peraltro a sottolineare come, considerata l’onerosità di alcuni impegni –è il caso a suo parere del “Cantiere di Campi Salentina”- per “la vastità delle aree dipinte “ si deve ritenere che il Porta “non potè lavorare da solo” e che anzi ad aiutarlo fu con tutta probabilità proprio il giovane Giaquinto, allora poco meno che ventenne.

La dimostrazione starebbe nella vicinanza stilistica tra il San Giovanni Nepomuceno dipinto da Giuseppe Porta e rimasto in loco(fig.6) e il San Nicolò Pellegrini opera di Giaquinto ora nel Muso diocesano di Barletta (fig.7) per “la forma estetica, la figurativa dinamica, gli elementi fondanti che troveranno ampio sviluppo e nuova dimensione a contatto con la pittura napoletana, romana, torinese e via via”

E’ oltremodo interessante, però, anche la sia pur breve riflessione iconografica che Amato svolge sulla pala di Campi Salentina, con particolare riguardo al valore emblematico dell’immagine del santo praghese vissuto nella seconda metà del XIV secolo, il quale, com’è noto, fu ucciso e gettato nella Moldava per non aver voluto riferire al re Venceslao IV i segreti rivelati dalla regina in confessionale. La morale è evidente: scrive Amato “la Chiesa intende rassicurare il penitente sul segreto del confessionale. Ogni sacerdote, al pari di s. Giovanni Nepomuceno, manterrà il segreto pure a costo della vita”.

Va detto che l’impostazione del lavoro di Pietro Amato appare giusto come una sorta di unicum , riservato com’è esclusivamente al campo della pittura sacra. Ma proprio in questa direzione -se è possibile un piccolo appunto ad un lavoro tanto ricco di novità e riflessioni- vale a dire nell’analisi di questo tipo di utilizzo delle immagini, qualcosa di ulteriore probabilmente andava messo in risalto.

In effetti, oltre il godimento estetico, scopo della pittura (ma più in generale delle arti) fu in certi periodi precisamente quello di stabilire e fissare, a beneficio comune, il fine e la ‘destinazione’ di determinate figurazioni, secondo la logica ciceroniana del docere movere delectare applicata dalla retorica all’arte figurativa. Quando sotto il severo pontificato di Clemente VIII Aldobrandini (1592 – 1605), il cardinale Gabriele Paleotti, che del Pontefice oltre che amico era stato maestro, assumerà di fatto la direzione della riformanda Accademia di San Luca e quindi della politica artistica della Santa Sede, le finalità e le modalità espressive saranno addirittura ratificate.

Nel suo notissimo Discorso intorno alle immagini sacre e profane dato alle stampe nel 1582 (ma l’edizione definitiva risale al 1594 , tre anni prima della sua scomparsa) egli si concentrò, tra le altre cose, su un tema davvero dirimente in quello scorcio di fine ‘500, vale a dire il concetto di ‘vero’ e ‘verosimile’ nell’arte, che evidentemente investiva il problema del fine educativo e quindi anche morale e religioso dell’arte stessa. Secondo il cardinale bolognese non erano né la composizione né la tecnica a dare valore e importanza a d un’opera, bensì esclusivamente il contenuto: di qui il concetto che l’arte devozionale fosse la più nobile, mentre le immagini concepite dalla cultura profana meritassero un posto secondario se non proprio una condanna.

Non casualmente nel corso del XVII secolo i teologi avrebbero considerato fondamentale l’utilizzo delle immagini: esse dovevano ricoprire il ruolo ben determinato di operare una sorta di illuminazione dell’anima consolidando e rafforzando la fede di coloro che le osservavano. Soprattutto i predicatori e i missionari tridentini consideravano le immagini come “concetti predicabili” capaci di pervadere la fantasia e istigare letteralmente all’azione; un’idea che nei secoli del barocco avrà un largo ascendente.

E certamente, da questo punto di vista, il lavoro di pur dignitosi artisti in una bottega come quella dei Porta, di una cittadina del meridione d’Italia, come Molfetta, non poteva che rimanere limitato al ruolo di testimonianza di un cattolicesimo tradizionale, nella consapevolezza che i credenti andassero stimolati ed incalzati tramite i classici mezzi della persuasione vale a dire la “parola visibile” e soprattutto la chiarezza –intesa latu sensu- dell’immagine.

Ha ragione dunque Amato quando sottolinea, più di una volta nel corso della sua esposizione, i limiti di questi artisti, cioè la scarsa propensione immaginativa e creativa, ma va tuttavia considerato, come si è detto, che probabilmente ai loro fini questa ‘dote’ non fosse affatto necessaria.

Si veda in effetti come lo stesso studioso ritenga ‘esemplare’ il “fare pittorico” di Giuseppe Porta nella pala della Trinità con l’Immacolata e santi firmata e datata 1728 della chiesa di San Luigi di Bisceglie (fig.8) , laddove si appalesa in modo evidente come l’artista costruisca l’opera, cioè servendosi “di un repertorio di figure collaudate che modifica secondo le diverse esigenze; con operazioni, che lo portano a estrapolare figurazioni e interi gruppi da incisioni e da composizioni varie, propone il dipinto come autonomo … “

Non sarà lui solo ad utilizzare in questo modo impersonale il repertorio iconografico: di opere composte con figure “tolte quasi tutte da altri lavori precedenti” a volte di “fredda accademia” o di “pedissequa influenza” furono autori pure gli altri pittori della bottega, capaci però anche di composizioni di “delicata finezza “ e di “composto equilibrio”, dove in effetti non casualmente potè modellarsi l’estro di un grande talento come Corrado Giaquinto.

Come scrive infatti Amato, con Giuseppe Porta “si chiude a Barletta una stagione d’arte e se ne apre una nuova, che vede affermarsi il lessico giaquintesco”. Ed in effetti a metà del XVIII secolo Corrado Giaquinto è già “ il rappresentante più importante della pittura rococò romano-napoletana”. Amato insiste nel sottolinearne la “straordinaria capacità di affreschista di volte e di cupole e d’ideatore di grandi pale d’altare” , di cui diede prova nei cantieri romani, nonché la “versatilità nel comporre storie sacre … mettendo in crisi gli ultimi innovatori del classicismo marattesco”.

Ma è anche vero che l’artista fu eccellente narratore di storie profane dal momento che –e la cosa certamente non è sfuggita a Pietro Amato che è, come si è detto, un vero esperto di Giaquinto- il pittore fu capace di intercettare i mutamenti nel senso estetico che, a partire dai primi inizi del Settecento, si venivano verificando in termini di gusto e committenza.

In effetti, l’ascesa di una classe di nuovi protettori e committenti, ben poco propensi ad accettare soluzioni che apparivano ora fin troppo accademiche e svigorite, per non dire desuete, ed attratti invece dalle novità, contribuì molto al progressivo superamento della poetica barocca e allo sviluppo del nuovo stile rococò.

Corrado Giaquinto, da autentico artista di caratura internazionale, capì proprio il momento della transizione e ne visse a pieno gli sviluppi, quando anche il mercato appariva ormai aperto ad un’arte certamente raffinata ed elegante ma non altrettanto stancamente didattica. Gli affreschi al Palazzo Reale di Madrid sono chiara testimonianza di come egli fu sicuramente tra coloro che si dimostrarono maggiormente pronti e preparati a intuire i mutamenti in corso e a farsene interprete.

Certamente anche in ragione di ciò l’artista potè coprirsi di riconoscimenti e di gloria, grazie proprio a questa non comune capacità di farsi interprete e in buona misura promulgatore di un linguaggio rinnovato ed adeguato ad esprimere i cambiamenti del senso comune, sostenuto poi da una grande capacità immaginativa oltre che da un prodigioso talento creativo.

Di qui lo stuolo di ammiratori ed anche di imitatori, i quali, come dice bene Amato era “come se avessero di fronte un vero campionario cui poter attingere abbondantemente”; proprio quello che accadde per la bottega dei Porta (che dopo la morte di Giuseppe era passata nelle mani di Nicolò), i quali “ replicarono, scomposero, ampliarono e mossero figure e immagini giaquintesche, divenendo di fatto in Puglia i continuatori naturali del verbo artistico di Corrado”.

Ed in effetti molti sono i capolavori del maestro che “si ritrovano in toto o parzialmente nella produzione della bottega Porta “ in particolare i lavori svolti da Giaquinto a Roma, come gli affreschi spettacolari della Chiesa di San Giovanni Calibita (figg.9 , 10)

Ma chi fu che effettivamente trasferì da Roma in Puglia quello che Amato definisce il “lessico figurativo e cromatico del Giaquinto di questa decade e dei primi anni di attività madrilena? “. In un parola: chi impresse la svolta giaquintesca alla bottega molfettese ora diretta da Nicolò Porta? Si era sempre pensato che proprio questi ne fosse stato l’artefice. Ma la ricerca di Pietro Amato conduce oggi a riflessioni del tutto diverse, dal momento che non solo non è comprovato che ci fu mai un alunnato romano con Giaquinto da parte di Nicolò, ma ancor meno che quest’ultimo abbia accompagnato il maestro nella trasferta madrilena.

Occorre insomma riferire a Felice Porta il merito di aver fatto arrivare, dalla grande capitale pontificia ad una piccola provincia del meridione d’Italia, la raffinata e ricercata poetica del Giaquinto. E’ insomma proprio Felice “il pittore che poco mancò, stando a quanto racconta la storiografia molfettese dell’ Ottocento, a uguagliare il Giaquinto”, nota Amato, che però riconosce che questo parere “è senza dubbio eccessivo” , anche se definisce Felice “pittore capace e meritevole d’attenzione”.

Ma chi è dunque Felice Porta, artista ignoto fino alla pubblicazione di questo libro , e tuttavia “in grado di ingannare e far passare la sua arte per quella del Maestro” ? Nato anch’egli a Molfetta nel 1718 è del tutto plausibile che proprio negli anni quaranta del Settecento si trovasse a Roma “per incontrare Giaquinto e lavorare nella sua bottega”.

Amato ha infatti rintracciato un documento che dimostra come “il giovane molfettese, che aveva circa 26 anni, nel 1744 è in casa del Maestro, abita con lui insieme ad un altro pittore … Antonio Priori”. I due giovani sono registrati, nello Stato delle Anime di quell’anno non come garzoni o allievi, bensì come pittori: tutto dunque lascia ritenere che abbiano aiutato il maestro nei cantieri chiusi l’anno prima, nelle Basiliche di Santa Croce in Gerusalemme e di San Lorenzo in Damaso.

E ancora: l’unica opera conosciuta di Felice Porta è la Pentecoste della Pinacoteca di Propaganda Fide restituitagli, dopo essere stata sempre considerata opera di Giaquinto, come si diceva all’inizio, a seguito del recente restauro che ne ha rivelato firma e datazione, cioè il 1744. La pala sarebbe la palese dimostrazione della “totale adesione all’arte del Giaquinto” in forza della tecnica utilizzata e di una tavolozza che con ogni evidenza hanno indotto in errore gli storici circa la vera paternità.

Le conseguenze possono essere notevoli, dal momento che “un tale modo di procedere di Felice porta alla revisione del catalogo delle opere del Giaquinto” tanto più, insiste Amato, che del maestro di Molfetta “esiste una produzione non sempre autografa, dovuta all’esigenza di dover rispondere alla crescente richiesta di bozzetti e di piccole tele da parte dei collezionisti”.

Prima conseguenza è quella di un riesame complessivo delle opere pugliesi di Giaquinto che possono ora essere restituite, quanto meno per via stilistica, al vero artefice. Come nel caso del San Vincenzo Ferrer della Chiesa di san Domenico di Soriano a Molfetta (fig. 11) attribuita a Giaquinto ma con ogni probabilità di mano di Felice Porta, o come per le molteplici repliche della Immacolata sempre considerate autografe, tra cui quella del Museo comunale di Molfetta (fig.12) dove “manca il respiro del grande artista la libertà creatrice la luce in creazione”.

Di certo c’è che la mattina del 18 aprile del 1753, come narrano le cronache dell’epoca, “ il sig. Corrado Giaquinto di Molfetta Regno di Napoli, pittore eccellente” partiva da Roma “per andare in Spagna a servizio da quel monarca” . Un documento riemerso dagli archivi spagnoli e tradotto da Pietro Amato racconta che l’artista si era messo in cammino con la moglie, che aveva appena partorito, accompagnato da un agente spagnolo e “un altro discepolo che va per sua volontà e due inservienti”.

Nella capitale spagnola Giaquinto giungerà il 19 giugno per un lungo proficuo soggiorno che lo porterà “al massimo della gloria” e dove consegnerà alla storia “uno dei capitoli più interessanti, se non il più significativo, del rococò europeo”.

Ma chi era il misterioso “discepolo che va per sua volontà” al seguito del maestro? Alla luce della nuova documentazione prodotta da Amato, tutto lascia credere che si trattasse proprio di Felice Porta, dal momento che l’accurata indagine condotta dall’autore consente di precisare che Nicolò “dal 1743 non si è mai allontanato da Molfetta” e soprattutto che “la certezza che Felice abbia accompagnato Giaquinto a Madrid sorge da una documentazione esterna, sufficiente a garantire che dal 1753 al 1755 è con il suo Maestro”.

Di cosa si tratta? Seguiamo la ricostruzione precisa di Amato : “ IL 16 marzo 1754, con atto privato, viene redatto in sua assenza il capitolo matrimoniale con la molfettese Chiara Finanese … ma la cosa più significativa è il suo matrimonio che avviene per procura il 26 dicembre 1754”. Perché un matrimonio ‘per procura’ se non perché un contraente “è lontano ed impossibilitato a partecipare di persona?”.

Non è dunque solo un ‘ipotesi che Felice Porta fosse a Madrid con Giaquinto “per motivi di lavoro”, dal momento che Corrado era stato un “pupillo della famiglia” così come lui stesso ora era “pupillo” di Corrado; niente di strano perciò che si fosse mosso al suo seguito per “cercare fortuna” rimanendovi dal ’53 al ’55, l’anno in cui “lo si troverà a Molfetta …. e dallo Stato delle Anime lo si troverà registrato (consultazione 1755-1763) regolarmente insieme alla moglie Chiara”.

Felice Porta morì a Molfetta il 27 marzo del 1775; a tutt’oggi, quanto se ne sa, non risulta che abbia avuto altri motivi significativi per allontanarsi dalla sua città, ma fino all’uscita di questo libro neppure di lui si sapeva nulla.

La ricerca di Pietro Amato ha aperto in effetti uno squarcio importante nel panorama della pittura meridionale settecentesca, ponendo un tassello decisivo per la definizione del profilo artistico di una scuola pittorica e in particolare di una bottega nella quale si formò un artista geniale e internazionale come Corrado Giaquinto, ma dove anche un esponente certamente minore ma capace, sicuramente molto più che un banale copista o un semplice ‘mestierante’, riuscì divenire “l’artista più vicino a Giaquinto a tal punto da essere scambiato con lui”.

Non resta che auspicare che un simile lavoro porti ad ulteriori sviluppi e che soprattutto possa stimolare l’avvio del restauro di alcune opere d’arte importanti ma purtroppo ancora scarsamente fruibili.