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Pittura del Seicento a Napoli. Da Mattia Preti a Luca Giordano (Arte’m 2011)

Il secondo volume della pittura del Seicento a Napoli dedicato agli artisti della seconda metà del secolo

Si conclude il fascinoso viaggio di Nicola Spinosa nel Seicento napoletano
venerdì 1 luglio 2011 di Achille della Ragione

Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Nicola Spinosa


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A breve distanza dal primo corposo volume da Caravaggio a Massimo Stanzione si conclude l’excursus di Spinosa nel secolo d’oro della pittura napoletana con un volume (più piccolo e con lo stesso prezzo del precedente) che giunge alle soglie del Settecento ed esamina i tre giganti: Preti, Giordano, Solimena, senza trascurare il nugolo di minori da Beinaschi a Malinconico, da Altobello a Farelli, da Del Po a De Matteis, oltre ad un capitolo dedicato agli specialisti della natura morta.

Purtroppo le foto a colori sono poche e quelle in bianco e nero sono spesso di qualità scadente e vi è il rammarico che l’opera non sia stato il grande repertorio sulla pittura napoletana seicentesca che studiosi ed appassionati attendono da tempo e che le difficoltà editoriali, in mancanza di sponsor, hanno rinviato sine die.

Le schede che corredano i dipinti sono approssimative, come pure la bibliografia appare insufficiente, ma il maggiore rammarico sta nel constatare che i pur numerosi inediti commentati sono transitati in aste internazionali o sono stati venduti dai grandi antiquari di Parigi, Londra e New York, a confermare una diaspora rovinosa che rappresenta il segno inequivocabile del declino di un’antica città, dal rango di capitale della cultura e delle arti figurative, a quello triste ed incontrastato di capitale della monnezza e della criminalità.

Un tempo le collezioni private partenopee, disseminate tra la Riviera di Chiaia e il Monte di Dio, tra via Costantinopoli ed il Vomero, erano tra le più famose in Europa, prima che un vento impetuoso le spazzasse via, rimpinguando raccolte private e musei stranieri, con un dissanguamento cominciato con la caduta dei Borbone e sviluppatosi oltre ogni limite nel secolo scorso, continuando fino ai nostri giorni.

Ma bando alla tristezza ed alla malinconia e godiamoci con gli occhi e con la mente le novità (non sono poche), che il solerte studioso ha voluto proporci nel suo fascinoso viaggio, una sorta di testamento spirituale e di passaggio delle consegne alle giovani generazioni di specialisti, tra le quali non mancano nomi che presto avranno il giusto riconoscimento.

Procedendo in ordine alfabetico partiamo da Altobello, del quale presentiamo una luminosa Adorazione dei pastori (Fig. 01) transitata presso Sotheby’s a Londra nell’aprile del 2001 con un’attribuzione al giovane Solimena e che viceversa è tra gli esiti più alti del pittore con stringenti affinità con le sue due tele conservate nella chiesa di S. Maria la Nova e nella quale si palpa tangibilmente una ripresa delle soluzioni luministiche di Mattia Preti e dei primi lavori del Giordano.

Del Beinaschi, attivo a Napoli ed a Roma e sul quale è in uscita una corposa monografia a cura di Pacelli e Petrucci, sono illustrate numerose opere tra cui abbiamo scelto una superba Natività di Maria (02) di collezione privata spagnola, destinata originariamente, per le cospicue dimensioni, ad adornare una chiesa o un convento e collocabile cronologicamente all’epoca del secondo soggiorno napoletano, quando il pittore è simultaneamente suggestionato dai modi del Lanfranco e per le ombre dense dal Guercino e da Mattia Preti, mentre le figure femminili discendono direttamente dagli esemplari del Domenichino nella Cappella del Tesoro di San Gennaro.

Per Giacomo Del Po si parte dalle due grosse tele (Fig. 03 – 04) conservate nella basilica di S. Antonino a Sorrento, le prime opere datate dell’artista, ancora ispirate a modelli del classicismo romano accademizzante, prima della svolta verso il barocco di Mattia Preti ed in pieno Settecento dalla pittura genovese, già raffinatamente rococò.

Non molti gli esempi del De Matteis, per il quale è prossima l’uscita di una monografia, tra questi abbiamo privilegiato un’Assunzione (05) eseguita nel 1691, uno dei suoi primi affreschi documentati, realizzato per la cappella di palazzo Tirone, sito nella zona di San Carlo alle Mortelle, oggi trasformato in scuola, ma all’epoca dimora di prestigio nella quale lavorarono anche il Solimena ed il Brandi ed una Danae (Fig. 06), simile a quella che fu presentata alla mostra Ritorno al Barocco, intrisa da una fredda luminosità e da una chiarezza delle forme, che richiama in egual misura la lezione del Maratta e la tradizione accademica francese, senza rinunciare ad una preziosità cromatica, testimoniante l’affermarsi anche a Napoli di una sensibilità al trionfante gusto rocaille.

Del Donzelli si discute del San Michele che abbatte satana (Fig. 07) conservato nella chiesa di San Vincenzo alla Sanità e lo si collega ad una tela di Meta di Sorrento firmata alla latina Philippus Zellus e datata 1654, accettando l’ipotesi del Porzio di identificare i due autori in una sola personalità. Per chi volesse approfondire l’argomento e conoscere il dipinto sorrentino ed anche un’altra tela firmata dell’artista rinvio al mio contributo: La bottega di Pacecco De Rosa, pubblicato nel volume Pittori napoletani del Seicento. Aggiornamenti ed inediti (consultabile anche sul web, pag. 44 – 45, fig. 24 – 25, tav. 101).

Farelli viene documentato da 14 opere e tra queste abbiamo scelto due dipinti presso l’antiquario Parenza di Roma. Partiamo da una notevole Madonna col Bambino e S. Anna (Fig. 08), databile agli inizi degli anni Ottanta, che appartiene alla fase purista del pittore, quando le sue fonti ispirative principali sono, oltre al Vaccaro, Massimo Stanzione. I personaggi dalle patognomoniche fisionomie si collocano in una composizione estremamente bilanciata e debitrice di una apprezzabile tecnica disegnativa.

Vi è poi una Strage degli innocenti (Fig. 09), che noi abbiamo in precedenza assegnato a Niccolò De Simone, a tal punto convinti, da avergli dedicato la copertina della nostra monografia sull’artista.

Il dipinto è eseguito con pennellate generose dense di materia e con l’uso di colori squillanti, tra i quali spiccano il blu cobalto ed il giallo cenere delle vesti delle mamme, i cui volti sconvolti manifestano in egual misura dolore, terrore e rassegnazione. Al centro della composizione un tocco di erotismo stempera il dramma che si sta svolgendo implacabile con una puerpera dal seno procace, che sembra voler offrire le sue grazie agli astanti, pur di distrarre la furia mortale degli aguzzini. Osservando il quadro sembra quasi di sentire il grido lacerante delle madri che vedono strapparsi dal seno le proprie creature innocenti e che rimbomba all’infinito, raccogliendo in sé tutti i dolori del mondo. La scena è drammatica e commovente, ma una regia ineffabile sembra bloccare i gesti dei protagonisti in una staticità senza luogo e senza tempo, mentre il potente dinamismo dell’episodio è colto in un’ottica che riduce il movimento in fissità, avvolta in una vertigine che tutto risucchia in un orrore infinito, che congela i nostri sensi e le nostre emozioni, ci fa trattenere il respiro, quasi partecipi della tragedia che si compie sotto i nostri occhi.

Di Gaetano Recco viene presentata come unica opera firmata la Morte di Seneca del museo di Capodimonte, proveniente dalla celebre raccolta D’Avalos, ci permettiamo di proporre ai lettori un’altra tela firmata (Fig. 10) : un Martirio di San Bartolomeo conservato a Ripacandida nella chiesa di S. Maria del Sepolcro.

Regolia, oltre alle celebri tele della raccolta Harrach a Schloss Rohrau, una delle quali datata 1673 è presente con un notevole inedito: una Caduta della manna (Fig. 011), dalle palpabili affinità con i dipinti conservati in Germania, eseguito in una fase avanzata della sua attività, quando dopo un modesto inizio nei modi del naturalismo di schietta marca partenopea, si accostò, tra recuperi classicistici dal Domenichino, aperture verso il Mattia Preti tenebroso e apparenti inclinazioni barocche, ai modi di Francesco De Maria.

Di Nicola Vaccaro in collaborazione con Brueghel vi è una Venere in giardino con putti e due ancelle sotto una pioggia di fiori (Fig. 12), che si colloca, per eleganze formali e compositive, chiarezza di luci atmosferiche e preziosismi cromatici nel clima tra classicismo e rococò tra fine ‘600 e primo ‘700. Illustrato anche un pendant con Venere ed Adone ed Aci e Galatea 013), già assegnato al De Matteis, improntato da una raffinata ricerca formale, orientata in senso classicista, che arriva a soluzioni di gusto rocaille.

Anche Domenico Antonio Vaccaro ha il suo spazio con un piccolo quanto prezioso olio su rame raffigurante il Ratto di Ganimede (Fig. 14), al quale si riferisce uno dei pochi disegni noti del pittore, marcato da una originale sensibilità e felicità compositiva, che permetteva al Vaccaro di tradurre la narrazione mitologica in opere di dimensioni ridotte con un uso squillante e vario della tavolozza, eliminando qualsiasi omaggio alla tradizione arcadica più canonica.

Angelo Solimena, spesso trascurato nelle trattazioni seicentesche, è ben rappresentato con tele tutte già note alla critica e tra queste, abbiamo scelto la Madonna delle anime purganti 015) conservata a S. Egidio Montalbino per l’intenso cromatismo che accentua il risalto delle forme e mostra come il pittore avesse già assimilato la lezione del Preti, pur preservando una rigorosa dipendenza dallo stile del suo maestro Guarino nell’accentuazione naturalistica dei particolari.

Per non dilungarci eccessivamente non parleremo del Simonelli e dei Malinconico: Nicola, Andrea ed Oronzo, degnamente rappresentati con alcuni dei loro dipinti più noti.

Passando ai giganti, del Preti abbiamo scelto un sorprendente Convito di Baldassarre (Fig. 016) di una collezione romana, un quadro di grandi dimensioni e di altissima qualità, in grado di rivaleggiare con i dipinti conservati nei più importanti musei e due Maddalene penitenti di prepotente effetto visivo. La prima (Fig. 17), presso l’antiquario Corsini a New York, è un notevole esempio per qualità formali, intensità espressiva, preziosismi neoveneti di luci e materie cromatiche della produzione finale del periodo napoletano del pittore. Per la seconda (Fig. 18), eseguita negli anni trascorsi a Malta, il Preti si ispira agli esempi del Ribera degli anni Trenta e del decennio successivo ed accentua i toni, seppur contenuti, di profonda pietà, immenso dolore e sincera devozione. Nella tela si apprezzano inoltre i brani di natura morta: il teschio tra le mani della santa, i libri e le pergamene a terra e la stessa stuoia a fare da umile tappeto.

Per Giordano, dalla sterminata produzione, abbiamo scelto l’inedito bozzetto per la celebre Cacciata dei mercanti dal tempio (Fig. 19 ) posta sulla controfacciata della chiesa dei Gerolamini e due modelli preparatori (Fig. 20 – 21) per scene di battaglia della fondazione Godia di Barcellona.

Solimena, che reclama e merita una nuova monografia ed una grande mostra, è ben rappresentato a partire da una giovanile Adorazione dei magi (Fig. 22), eseguita negli anni Ottanta, che per ampiezza e sontuosità compositiva, per luci dorate e dilaganti e per preziosità di stesure cromatiche evidenzia l’attenzione verso la pittura luminosa e neoveneta del Giordano, verso cui il Solimena si configura autorevolmente come altre ego. Del 1690 è il bozzetto preparatorio (Fig. 23) per un particolare degli affreschi che decorano la volta della sacrestia della basilica di San Paolo Maggiore. Un altro bozzetto raffigura la Carità, una delle virtù teologali affrescate nel tamburo della cupola della chiesa di Donnalbina, oggi in precario stato conservativo, dove è rappresentato il Paradiso e la Visione di San Benedetto e precede i dipinti con Storie di Maria collocati nella crociera. Molto bella un’Educazione di Maria, per qualità compositive e chiarezza cromatica vicina ad opere databili intorno al 1690, un tema più volte illustrato dal Solimena, a partire dalla redazione conservata a Capodimonte. Concludiamo con un gigantesco dipinto che fa da soffitto ad un ambiente di palazzo Tirone, oggi istituto Vittorio Emanuele II, che raffigura Alessandro dei Medici che entra a Firenze (Fig. 24), un’opera degli anni Novanta sconosciuta a studiosi ed appassionati, che ricordo con profonda nostalgia per le tante visite guidate che ho accompagnato ad ammirarla grazie alla cortesia della preside.

Il capitolo sulla natura morta è ampio quanto confuso, non certo per colpa dell’autore, bensì per la difficoltà di definire con certezza, non solo la produzione di ogni singolo artista, ma anche la scansione cronologica delle opere, per la scarsità di dati documentari e per la confusione tra le sigle, quasi tutte eguali in ambito napoletano.

Lo dimostrano alcune audacie attributive, come quella di assegnare a Luca Forte il celebre Frutta e verdura con fioriera e colomba in volo, da sempre ritenuta il capolavoro del Maestro di Palazzo San Gervasio o a Ribera la cruenta Testa di caprone del museo di Capodimonte, che da sempre ha oscillato tra Giovan Battista e Giuseppe Recco; oppure la ricostruzione della figura di Giacomo Coppola, affrontata da Leone de Castris ed accettata da Spinosa, che lascia molti dubbi. (Per un approfondimento della questione rinvio al mio articolo La natura morta napoletana in mostra a Villa Pignatelli consultabile in rete).

Anche Giacomo Recco non sfugge a questa alea di assoluta incertezza. Considerato per decenni tra i patriarchi del genere partenopeo era stato nell’ultimo decennio completamente rivisitato dal De Vito che, grazie al reperimento di un fondamentale documento, aveva espunto dal suo catalogo gran parte della sua tradizionale produzione consistente principalmente in vasi elegantemente decorati, spesso con stemmi nobiliari e fiori stilizzati di gusto nordico, con prevalenza del colore azzurro. (Per chi volesse conoscere meglio l’argomento consiglio di consultare la voce relativa nel mio volume sulla Natura morta napoletana dei Recco e dei Ruoppolo). Anche la grande mostra di Monaco e Firenze del 2003 aveva seguito questa linea, trasferendo tutta una serie di dipinti, in passato assegnati a Giacomo Recco, nel catalogo di un non ben definito geograficamente, ma non napoletano, Maestro dei vasi a grottesche. Per cui è grande la meraviglia di rivedere sotto l’antica attribuzione alcuni dipinti, tra cui un variopinto Vaso con grottesche e fiori (Fig. 25).

Porpora è rappresentato non solo da sottoboschi, la sua specialità, ma anche da pesci e conchiglie, in linea con la visione moderna di un pittore in grado di rendere sulla tela i più diversi aspetti della natura e da un fastoso Vaso di fiori con ramarro (Fig. 26), eseguito negli anni della permanenza a Roma, nel quale sono resi con notevole realismo, una varietà di fiori dai colori sgargianti e dal profumo penetrante; una composizione di grande effetto decorativo ben curata nell’andamento di luci ed ombre.

Luca Forte ha numerose nuove proposte attributive e tra queste abbiamo scelto il Fruttarolo (Fig. 27), già nella collezione Miani di San Paolo di Brasile e attribuito in passato ad Alonzo Rodriguez dal Marini e dalla Campagna Cicala. Giustamente dall’esame del dipinto Spinosa pensa che l’autore debba essere un protagonista del genere in ambito napoletano, in rapporto con gli esempi dei generisti attivi a Roma nel solco del Caravaggio tra il primo ed il secondo decennio e questo insieme di mele e pere, indagato con rigoroso rispetto della verità oggettiva, potrebbe costituire l’esordio del Forte intorno al 1630. La qualità della frutta esposta è infatti identica, sotto il profilo della resa naturalistica, per nitidezza di tagli di luce e brillantezza di materie cromatiche, a molte altre composizioni attribuite al pittore dalla critica. Per l’autore della figura diventa difficile pensare al Rodriguez, salvo che non si ipotizzi un secondo soggiorno napoletano dell’artista; più probabile cercarne la paternità tra i seguaci del Ribera o forse lo stesso Aniello Falcone, alla luce del rapporto di frequentazione del Forte nella sua bottega.

Giuseppe Recco è famoso per le sue composizioni a carattere marino con pesci ancora guizzanti e per la rara abilità di fissare sulla tela il delicato momento di trapasso tra la vita e la morte. La sua produzione è estremamente composita con i suoi spregiudicati inserimenti di materiali eterogenei, come nel caso di una Vanitas (028) di altissima qualità, un tema trattato altre volte dal pittore, mai però con tale ampiezza e sontuosità, dagli strumenti musicali a tappeti e stoffe preziose, al punto che la critica in passato ha ipotizzato contatti col Baschenis in Lombardia e con pittori francesi attivi in Italia come il Comte.

Una bella natura morta (Fig. 29) di Cusati, che adorna la sede dell’ambasciata italiana di Parigi, in sottoconsegna dal museo di Capodimonte, mette in evidenza uno spirito acutamente decorativo oramai volgente in modo aperto al rococò, sotto la spinta del fare pittorico, libero e fantastico, di Luca Giordano e di recenti esempi del Belvedere, anticipando le soluzioni di Casissa, Garri e Gaspare Lopez.

Di Giovan Battista Ruoppolo, infine, abbiamo scelto una coppia di nature morte (Fig. 30 - 31) facente parte di una più ampia serie dedicata alle stagioni, eseguita in collaborazione con Andrea Vaccaro e presentata come inedita (in bianco e nero e con misure sbagliate) senza tener conto che era stata da me pubblicata, alcuni anni fa: Un superbo pendant di Natura morta, per riproporla poi in Pittori napoletani del Seicento, aggiornamenti ed inediti (pag. 24 – 25, tav. 79 – 80). La coppia venne presentata alcuni anni fa alla mostra dell’antiquariato di Napoli con un’antica attribuzione di Federico Zeri a Vaccaro e Brueghel, un’accoppiata impossibile, perché il soggiorno del nordico all’ombra del Vesuvio cade dopo la morte di Andrea ed a Roma Abraham aveva dei collaborato fedeli che lo coadiuvavano. L’attento esame della spigola identica a quella che troneggia in alcune tele certe del Ruoppolo, come quelle del Banco di Napoli o della collezione Pagano, fanno cadere ogni incertezza nell’assegnare a Giovan Battista la paternità dei due dipinti.

 

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