Rubrica: LETTURE CONSIGLIATE |
La casa del Balambaràs. Una famiglia in Etiopia al tempo dell’Impero italiano. (De Luca Editori, 2016)
L’Etiopia del 1937/42 nei ricordi di Franca ZoccoliLa vita degli Italiani in Africa rivive in un libro emozionante che si legge come un romanzo.
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martedì 1 novembre 2016
Argomenti: Mondo Argomenti: Recensioni Libri Argomenti: Italia Argomenti: Franca Zoccoli Franca Zoccoli, storica dell’arte, autrice di numerosi libri e pubblicazioni internazionali, oltre che critica d’arte per “Il Resto del Carlino” dal 1976 al 2000, si è cimentata questa volta con un libro di ricordi, intitolato “La casa del Balambaràs. Una famiglia in Etiopia al tempo dell’Impero italiano” (De Luca Editori), che è allo stesso tempo una cronaca di famiglia e insieme un reportage di un periodo poco conosciuto della storia italiana. Ha solo sette anni la piccola Franca quando in un giorno di novembre inoltrato del 1937 parte dal porto di Napoli per trasferirsi con la sua famiglia in Etiopia, dove rimarrà cinque anni al tempo del più effimero degli imperi coloniali, l’AOI (Africa Orientale Italiana). La città è Addis Abeba, ma per arrivarci tocca altri luoghi, come Gibuti, e nel corso della narrazione descrive i viaggi nel territorio, più o meno drammatici, come l’attraversamento della depressione della Dancalia, un “inferno dantesco” (con temperature che possono superare i 60°), o la visita delle Piramidi in Egitto nel corso di un viaggio a Roma fatto con la madre per raggiungere il nonno gravemente malato. La memoria di ognuno di noi non può contenere tutta l’esperienza trascorsa, minuto per minuto, immagine per immagine, eppure, come emerge prepotentemente già dalle prime righe, la memoria di Franca a distanza di tanti anni si è mantenuta vivida, sia pure giustamente selettiva nel conservare quelle immagini che l’hanno particolarmente colpita in un periodo che ha segnato un momento cruciale della sua vita. Ai ricordi personali ha aggiunto quelli della sua famiglia, con digressioni anche su periodi successivi, e notizie e brani tratti dalla stampa dell’epoca, come pure le diverse canzoni in voga in quegli anni. Il titolo trae spunto dalla villetta in cui abitò ad Addis Abeba, affittata da un balambaràs, termine che designa un nobile etiopico, così come il più conosciuto ras. Era un tipo di abitazione riservata ai notabili, mentre tutti gli altri vivevano nei tucul. Pur semplicissima, la casa sorgeva su un terreno abbastanza vasto, che ben presto venne trasformato in un giardino caratterizzato da grandi banani e piante fiorite, mentre, oltre il muro di cinta, si ergevano altissimi gli eucalipti, il cui profumo balsamico era caratteristico della città. Si diceva all’epoca tra gli italiani che l’imperatore Menelik II avesse fatto piantare una foresta di eucalipti sul finire dell’Ottocento per giovare alla salute della bella moglie Taitù, che era “debole di petto”, ma l’autrice sostiene che probabilmente si trattava di una fantasia, mentre è storicamente provato che fu la stessa Taitù a scegliere il nome di Addis Abeba, che significa Nuovo Fiore, fondata ad una altitudine più bassa rispetto alla precedente capitale, Entotto, per godere di un clima migliore. Il padre di Franca, Manlio, che lei definisce un “ingegnere futurista”, specializzato in strade e ponti, si trasferì in Etiopia per realizzare una nuova realtà tecnologica, e fu ben presto raggiunto dall’intera famiglia, ovvero la moglie Tilde, una donna fuori del comune che aveva il dono di saper vedere i lati positivi delle cose, i tre figli (di questi Franca era la maggiore; un’altra figlia sarebbe poi nata in Etiopia) e la domestica Lisina. Non si trattava di poveri migranti in cerca di fortuna, ma di una famiglia socialmente elevata che, come tante altre, si trasferiva in un territorio italiano portando lì tutte le abitudini italiane (e perfino le stoviglie che arrivarono però in un secondo tempo). Era comunque una famiglia animata da spirito d’avventura, tant’è che il padre, orgoglioso del suo lavoro, fa trascorrere una volta le vacanze scolastiche presso il “quinto cantiere” a Lekemti, vicino al confine col Sudan, facendo alloggiare la famiglia in una baracca dove “di notte si sentivano da lontano le oscene risate delle iene e, più vicino, gli ululati degli sciacalli che qualche volta venivano addirittura a grattare le porte con le zampe”. Il padre aveva ben motivo di essere orgoglioso del suo operato, perché in effetti in quegli anni gli italiani trasformarono l’Etiopia in un paese più evoluto, costruendo strade, ponti, scuole, ospedali, chiese, tant’è che lo stesso Negus, una volta ritornato al potere, definì gli italiani “più costruttori che invasori”, e tuttora gli etiopi considerano nel complesso positivo il periodo italiano, ma si tratta di un arco di tempo che, legato come è all’epoca fascista, è stato quasi dimenticato. Il periodo felice degli italiani precipita nel 1940 con la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna da parte di Mussolini e tutte le ansie della popolazione rivivono nel libro. La casa del Balambaràs viene abbandonata e la famiglia trasloca in un’abitazione più periferica, dove subisce anche un assalto dagli abissini. Un’esperienza davvero drammatica risale alla fine del 1941 quando gli inglesi occuparono Addis Abeba. Nella lotta disperata per la sopravvivenza, la piccola Franca, all’epoca undicenne, affronta un viaggio su un camion senza la famiglia, che dura dieci giorni tra pericoli di ogni tipo su strade dissestate, fino a raggiungere Asmara. Alla fine, con spedizioni successive in più tempi, la famiglia si ricongiunge e ad Asmara vive “un periodo di sospensione, un tempo di cose che mancavano: attività, progetti, casa nostra”. In quella terra di salvezza che era l’Eritrea, dopo l’inferno etiopico, giunse la triste notizia che il 3 marzo (del 1942) era morto a Nairobi il duca d’Aosta, quell’Amedeo di Savoia che aveva governato l’Etiopia come vicerè e che aveva guidato un’eroica resistenza all’Amba Alagi. Poco dopo una ragazza ventenne, amica di famiglia, morì in seguito a un intervento di appendicectomia. Anche il padre di Franca si ammalò e per curarsi si trasferì temporaneamente a Cheren. Alla fine di quel periodo travagliato la famiglia venne rimpatriata. Quanta differenza tra il viaggio di andata spensierato e il lunghissimo viaggio di ritorno che comportava il periplo dell’Africa, visto che il canale di Suez era intransitabile! La vita di bordo era regolata e scandita da una serie di eventi che dovevano forzatamente tenere occupati i viaggiatori (e soprattutto i numerosi bambini) tra religione (era previsto il cappellano di bordo) e regime, tra preghiere e canzoni retoriche, per quasi un mese e mezzo. Questo libro ha il merito di far rivivere tutti questi momenti di vissuto famigliare e insieme la vita quotidiana, le convinzioni, l’entusiasmo e il modo di vedere le cose degli italiani in Africa, una “storia minore” che nessun libro di storia tratta, ma che invece è importante per comprendere quel periodo. Franca Zoccoli ce lo racconta “con una concentrazione di emozioni che fanno capire che l’autrice è riuscita a rimettersi nelle vesti di una bambina”, come ha osservato la giornalista (e architetto) Luisa Chiumenti nel corso della presentazione del volume, e con una sensibilità molto particolare, che la porta a descrivere i paesaggi, le persone, gli animali in modo semplice ed efficace, coinvolgendoci nelle sue considerazioni che denotano curiosità da intellettuale verso le curiosità della natura. P.S.Il volume (176 pagine, € 18) presenta una prefazione di Giordano Bruno Guerri e illustrazioni di Cecilia Avallone ispirate a foto d’epoca. Diritti di copyright riservati |