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Rubrica: TERZA PAGINA

Racconti per la estate

Una serie di raccontini per la spiaggia
martedì 1 luglio 2008

Argomenti: Ricordi
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GREEP

Greep sonnecchiava sulla sedia del terrazzo, come soleva fare nelle notti d’estate. Acciambellata sul cuscino era cullata dal rombo lontano delle macchine che passavano sullo stradone a intervalli irregolari. Ogni tanto emetteva un lamento roco, che sembrava sintonizzato coi sogni brevi e agitati che accompagnavano il suo riposo. In verità Greep avrebbe preferito dormire di giorno, ma era di notte che la vita della sua amica subiva una sosta. Alcune porte della casa venivano chiuse e in casa vigeva la consegna del silenzio. In tal modo anche lei che, in realtà, aveva bioritmi diversi da quelli di Cesira aveva imparato a conformarsi alle sue abitudini. Del resto la pigrizia è il più dolce dei vizi, e che c’è di meglio che crogiolarsi, beninteso a pancia piena, su di un morbido cuscino mentre la brezza notturna ti spazzola il pelo della schiena?

Sia Greep che la sua amica erano in pratica due vecchie signore scettiche e brontolone, ciascuna col proprio carattere, più fumantino quello di Cesira, più sornione ed incline all’ironia quello di Greep, ma forti entambi. Non c’era molta tenerezza nel loro rapporto, anzi, spesso fra di loro sprizzavano scintille e poteva capitare che si mandassero a quel paese, ma a ben guardare non era mai accaduto che la ciotola dell’acqua o quella dei bocconcini rimanessero a lungo vuote, o che la vecchia Cesira andasse a letto senza prima ricevere una bella strofinata sulle gambe dalla sua amica. – Che cosa vuoi? Rompiscatole. - borbottava allora – ce n’hai da mangiare! Ma chi me l’ha data questa croce? – Si chiedeva spesso Cesira, una domanda retorica che andava ripetendo a tutti quelli che avevano voglia di starla a sentire. Immancabilmente, alla domanda faceva seguire anche la risposta: - I figli, chi altri, se no! Sono loro quelli che ti portano in casa i guai, e poi se ne vanno e li lasciano a te.

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Questa era, in sintesi, la storia di Greep che aveva trovato l’America in casa di Cesira, almeno a sentire la sua padrona. A questo punto, via, partiva l’elenco dei danni: ai mobili, alle tappezzerie, al divano, e poi le spese quotidiane per la segatura, per il cibo. Coi merluzzi surgelati che Greep aveva consumato nella sua esistenza ci poteva campare bene un branco di foche per tutte le feste di Natale, senza parlare poi delle scatolette di tonno e riso, che nel carrello del supermercato non dovevano mancare mai. E non basta, mica è finita! Una vera condanna agli arresti domiciliari, perché non puoi assentarti da casa per tre giorni di fila, mica la puoi abbandonare.

Greep ascoltava queste filippiche con aria rassegnata. Coi suoi occhi gialli guardava l’interlocutore di Cesira facendo tremolare i baffi appena un po’ come per dirgli: - Che vuoi, ci vuole pazienza! Sembra pesante a te? E allora io che ci combatto tutto il giorno? Però, credi pure, lei pare così, ma è tutto fumo e poco arrosto. In realtà, se la sopporto ancora in casa mia è perché, in fondo, è una brava donna.

Se poi le lagnanze di Cesira si prolungavano oltre la decenza, Grrep girava il groppone e s’allontanava disgustata facendo cenno di no con la coda, un no netto e senza appello.

I sogni di Greep sembrarono farsi ancora più inquieti. Si lamentava ora più frequentemente e finì col destarsi di soprassalto, di malumore. Sentiva che qualcosa non andava, qualcosa che non dipendeva dalla digestione, ma da una specie di presagio. I suoi sensi allertati non captavano alcun rumore insolito, però un segnale appena percettibile nell’aria c’era, forse una sensazione olfattiva, appena un’ombra d’odore che proveniva dall’interno della casa, un segnale del corpo che nella sua mente era associato all’idea di malattia.

Fece per entrare in cucina ma s’accorse che la vetrata resisteva alla pressione del suo corpo. Cesira doveva averla chiusa, convinta forse che lei restasse all’aperto per tutta la notte; la solita superficialona che credeva di saper tutto e ignorava che ogni tanto lei aveva bisogno di sgranchire un po’ le gambe e si faceva un giro d’ispezione per l’appartamento, non si sa mai! Il controllo della proprietà era uno dei primi doveri di un gatto di casa della sua professionalità.

Impossibilitata ad entrare non le restava che aspettare per cogliere gli sviluppi della situazione: mancava poco all’alba e presto Cesira si sarebbe alzata ed affacciata, perché aveva abitudini mattiniere. Greep si acciambellò di nuovo sulla sedia, ma non riuscì a riprendere sonno perché si sentiva un po’ agitata. Quella sensazione olfattiva s’andava facendo sempre più netta e consistente e le tornò in mente una circostanza che le era accaduta molto tempo prima, quando lei era una gattina giovane, quella volta che era stata lasciata sola per un lungo periodo. Ogni due o tre giorni veniva una ragazza, la figlia di Cesira, a portarle un po’ di cibo e cambiarle l’acqua e la segatura. Prima che Cesira sparisse, e per un po’ di tempo ancora dopo che era tornata, Greep aveva sentito emanare quell’odore dal suo corpo. Non era un buon odore e nemmeno associato a un buon ricordo per lei. Non c’era quindi da stare tranquille e Greep rimase desta, di malumore, in attesa che il tempo trascorresse e giungess il mattino.

Quando l’ora consueta della levata per Cesira fu trascorsa senza che alcun cenno di vita si manifestasse da parte sua, Greep iniziò a chiamare l’amica coi miagolii, con un po’ di preoccupazione nella voce. Nulla. In casa nessun rumore. Cominciò allora a innervosirsi per davvero. Salì sul davanzale della finestra della stanza da letto, e prese a raspare sulla serranda con la zampetta. Era un vecchio trucco per far saltare fuori Cesira ingrifata come un vipera, perché non sopportava quei grattamenti. Stavolta però fu cilecca, e nessun risultato apprezzabile fece seguito alla mossa di Greep. Ma che stava combinando quella rimbambita? Si doveva essere messa nei guai. In che modo lei poteva agire adesso? Era chiaro, quel che occorreva fare era entrare in casa, rendersi conto della situazione e, in caso, chiamare qualcuno in soccorso. E quell’oca che l’aveva chiusa fuori! Ma glie ne avrebbe dette quattro, al momento.

Il piccolo cervello di Greep ricevette una scarica di adrenalina da elettrochoc e prese a lavorare a pieno regime, cercando in memoria la circostanza che potesse aver chiamato in casa il maggior numero di persone. Con gli occhi ridotti a due fessure ronzava come un motore in pressione, consapevole che forse era in gioco la sua esistenza e quella della sua amica.

Un guizzo: trovato! Con un balzo fu sulla balaustra di cemento del terrazzino e attenzione adesso. Appoggiò il collo su un vaso di fiori e cominciò a spingere piano. Il vasetto si piegò di lato, oscillò per un momento e si rovesciò restando però in equilibrio precario sul davanzale trattenuto com’era dal sottovaso. Accidenti, questo era un imprevisto. Pazientemente Greep riprese a spingere di lato il vaso che sotto la sua pressione rotolò un pochino, tanto da scavalcare il sottovaso, e giù, precipitò in cortile, sul tetto del garage. Perfetto, operazione riuscita, ora occorreva solo ripeterla pazientemente tante volte fino a ottenere il risultato.

Uno dopo l’altro tutti i vasi di fiori che Cesira curava giornalmente come la pupilla dei suoi occhi volavano in basso e s’infrangevano con un cupo rumore di scoppio, che l’eco del cortile amplificava, e già qualcuno si stava affacciando e cominciavano a levarsi le voci.

Greep proseguì infaticabilmente nell’opera di distruzione sistematica dei tesori di Cesira. – Tentiamo il tutto per tutto! Se mi sono sbagliata sarà lei a frullarmi nel cortile! – E un brivido le corse sul pelo della schiena.

Quando ebbe completato l’opera salto giù dal davanzale e restò, vibrante per lo sforzo, in attesa degli eventi. Lei aveva seminato, ora qualcosa doveva pur accadere. Non si sbagliava e di lì a poco iniziò a squillare il telefono di casa e gli squilli si susseguivano senza che alcuno rispondesse. Trascorse ancora del tempo e, finalmente, cominciarono a risuonare i colpi di coloro che stavano forzando la porta. Venne la portinaia a liberarla e Greep, facendo capolino fra le sue gambe, vide degli uomini che portavano via la sua amica su una barella. Timorosa s’accostò a Cesira per capire se ce l’avesse con lei per via dei vasi. Cesira non poteva parlare ma protese il braccio verso di lei , lo sguardo implorante rivolto alla portinaia che fece due volte di sì, con il capo, si soffiò il naso nel fazzoletto e poi mugolò: - Sì, tranquilla, me n’occupo io. Lei pensi solo a star bene signora Cesira.

Greep si fece sotto e si protese un attimo a leccare la mano dell’amica, per dirle di tornare presto, poi dovette spiccare un salto di lato per non farsi pestare dai barellieri.

- Tontolona mia! – borbottò fra sé, lisciandosi i baffi per darsi un contegno – Eh, se non ci fossi io a occuparmi di te! -

Milena

- Allora, signorina Milena, come le ho già detto se vuole che noi interveniamo lei deve sottoscrivere una denuncia vera e propria. Ma, se ho capito bene, in realtà quel signore non ha fatto nulla di veramente brutto. E’ così o no?
- Ma voi che aspettate a intervenire, che mi abbia fatto qualcosa per davvero? Grazie, ma allora non mi serve più!
- Non si arrabbi signorina. Vede, per intimare a qualcuno di smetterla, come lei ci chiede, dobbiamo sapergli dire esattamente cos’è che deve smettere.
- Ma allora non mi sono spiegata.
- Provi a spiegarsi meglio. Sa, é il dettaglio che fa la differenza.
- Quell’uomo sta diventando un’ossessione. Me lo trovo davanti dappertutto. A casa mia lo trovo spesso che m’aspetta fuori al portone, e mi guarda. Qualche volta la sera si mette seduto su una panchina del viale un po’ nascosto, e da lì mi sorveglia. Me lo trovo innanzi alla scuola dove vado a fare supplenze e l’ho persino visto nel cinema, dov’ero andata con un’amica. Dimenticavo, sere fa ero in trattoria con un amico quando mi son vista arrivare il cameriere con una bottiglia di vino che costa una follia. Gli ho chiesto se era matto e mi ha detto di no. Qualcuno l’aveva offerta alla salute mia e del mio compagno. Posso immaginare chi!
- Vede signorina, se noi andassimo a dire a quel signore di non sedersi su una panchina particolare, di non passeggiare davanti alle scuole, di non andare al cinema, di non offrire quel che vuole a chi vuole, ci farebbe fare una figura da peracottari. Lei non sa chi siano costoro, lo so, è un modo di dire. C’erano una volta e andavano in giro con un carrettino a vendere pere cotte. Un lavoro per gente molto modesta sa, anche intellettualmente.
- Mi ci mancavano pure le pere cotte. Ma insomma io non devo campare più?
- Ma che dice signorina. Lei deve invece stare tranquilla e vivere normalmente. Vedo che possiede un cellulare, lo usi in caso di bisogno. Se chiama il 113 vedrà che qualcuno arriva di corsa, bisogna però, nel suo caso vuol dire che lei è stata offesa o sta per subire un danno, o che si trova in pericolo reale. In nessuna delle circostanze che mi ha riferito mi sembra che ci si sia mai trovata. Le ha rivolto la parola quel signore? Che le ha detto?

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- Veramente no. Ma mi guarda, sapesse in che modo! Una volta m’è sembrato addirittura che stesse piangendo. Ma si può sopportare una corte così cretina e fastidiosa? Capirei un ragazzo ma quello ha un’età che potrebbe essere mio padre! Solo per questo si dovrebbe vergognare!
- ... e già, potrebbe! E ... si dovrebbe, infatti...
- Che ne sa? Lei non l’ha mai visto.
- ...Già, non l’ho mai visto. Ma lei me l’ha descritto così bene che se l’incontro lo riconosco.
- Va bene ispettore. Me ne vado, ma non sono affatto contenta, perché non mi sembra che mi abbiate presa molto sul serio. Se devo dire la verità ho avuto anche l’impressione che lei mi prendesse un po’ in giro. Speriamo che non mi accada nulla di male, se no mi sentirete!
- Signorina cara, non ci minacci così, e stia di buon animo, cercheremo di fare qualcosa anche per lei.
- Arrivederci.
- Arrivederci, signorina Milena.

- Maresciallo, faccia la cortesia, telefoni a nome mio all’ingegner Ferrari e gli dica di smettere di far le poste a sua figlia. Se avessi saputo col cavolo che gliela rintracciavo! Che si decida a farsi riconoscere, o la lasci in pace. Ha ragione la piccola, ce l’abbiamo tutti il diritto di campare! Anche noi! Glielo dica, maresciallo. -

L’ultimo caffè

Ho incontrato ieri mentre uscivo la signora Trotta nel cortile di casa nostra. Camminava assorta come sempre. Quando mi ha visto mi è sembrata esitare un momento poi risolversi e piegare decisamente dalla mia parte. Fino a quel momento, da quando suo marito non c’è più, aveva sempre evitato la gente. Rispondeva cortesemente al saluto con aria malinconica e faceva capire che le avrebbe fatto piacere ma non ce la faceva proprio a intrattenersi di più come in passato ha sempre fatto, perché è una persona gentile e dolce.

Forse per lei il peggio è passato, ho pensato, e vuole tornare alla normalità. Così ci siamo scambiati inizialmente alcune frasi di circostanza poi, inevitabilmente, ed è stata lei stessa a portarcelo, il discorso é caduto sulla fine del marito. La lasciavo sfogare, capivo che al desiderio di chiudersi in se stessa che prima la dominava subentra ora il bisogno di condividere con persone amiche il groppo che si tiene dentro. Solo per questa circostanza sono venuto a conoscenza di un fatto che è accaduto, e che la statistica medica teoricamente esclude ma di fatto ammette soltanto in un numero incredibilmente piccolo di casi.

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L’amico Trotta, che malgrado l’età ancora lavorava, quella mattina si alzò presto dal letto sebbene fosse domenica perché desiderava assistere alla partenza del gran premio motociclistico della Malesia. La moglie lo vide alzarsi ma volle restare al calduccio ancora un po’. Circa un’oretta più tardi sentendo venir musica dall’audio ritenne che la corsa fosse terminata e decise di alzarsi anche lei. Mise la caffettiera sul fornello e chiamò il marito senza averne risposta. Andò allora a cercarlo nel soggiorno e lo trovò riverso sul divano, bianco come un cencio e con gli occhi sbarrati e fissi verso l’alto. Lo scosse ripetutamente e lui ci mise un po’ a riscuotersi, dapprima pareva non sentirla. “Che hai? Che ti senti? “Non mi sento tanto in forma. Ho mal di testa.” mormorò.

- “Ho fatto il caffè, lo prendi con me il caffè?
- “Insieme a te? Si, certo.

Lei gli portò il caffè e gli sedette accanto sul divano. Sorseggiarono in silenzio. Lei lo guardava preoccupata. Lui le sorrise per rassicurarla, porse la tazzina e disse “Ora mi vado a mettere un po’ sul letto.

Si alzò e andò a distendersi sul letto, sopra le coperte. Entrò subito in coma profondo e non ne usci più nei quattro mesi che rimase in terapia intensiva.

Ho parlato di questo caso a un amico medico che mi ha formulato in termini diversi, ma a me più familiari, più o meno la stessa ipotesi che altri suoi colleghi hanno proposto alla moglie in termini tecnici. Non ti ricordi, m’ha detto, quel verso di Omero che dice: Ahimè, l’uomo è veramente la più misera delle creature che sono sulla terra ma ne è pure la più meravigliosa? E non sai che l’amore è una delle sue più forti motivazioni? E te la senti di escludere che la sua stessa fragilità possa consentirgli una tantum di dominare se stesso al punto di tamponare un ictus il tempo necessario a gustarsi in pace l’ultimo caffè con sua moglie? -



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