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Rubrica: TERZA PAGINA

L’arca dell’alleanza

Un racconto dove la disonestà di una persona emerge anche grazie ad un oggetto a cui l’autore attribuisce valori particolari.
giovedì 1 febbraio 2018

Argomenti: Ricordi
Argomenti: Racconti, Romanzi

Ricordi da una foto.

Questa è una storia un po’ particolare che ho tenuto a lungo nel cassetto perché coinvolge altre persone che nel mio ambiente erano facilmente riconoscibili. Ora che è trascorso tanto tempo il raccontarla non può far danni. Inizia al tempo in cui da bambino in qualche occasione mio padre mi portava con sé all’ufficio dove lavorava. Si trattava di un ente pubblico situato nei pressi di Piazza Colonna che coordinava la cooperazione in Italia e che è esistito fino al 1945.

Mio padre vi faceva il cassiere ed a me, bambino, del suo ufficio interessavano particolarmente solo due cose: una fila di campanelli sul muro dei quali ogni tanto qualcuno squillava e significava che uno dei dirigenti aveva bisogno di lui, e l’altra, quella che maggiormente mi affascinava era una grossa cassaforte fornita della più lunga chiave che avessi mai visto, dalla quale lui non si separava mai. Era una cassaforte di modello antiquato così solida e pesante che non aveva bisogno d’essere murata come quelle che usano oggi.

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L’uomo alla scrivania è mio padre nel 1939
Si noti la scrivania ingombra di carte, timbri ed altri oggetti. A destra s’intravede una cassaforte antiquata.

Aveva una forma strana simile a quella d’un sarcofago egizio color legno di rovere stagionato, aspetti che facevano sì che quando mi parlarono, a scuola o a dottrina, dell’Arca dell’alleanza che custodiva le tavole di Mosè era sempre a quella cassaforte che andava il mio pensiero, e non riuscivo a immaginarmela diversa.

Sono cresciuto ed a mia volta ho preso a lavorare in un ente pubblico nel periodo in cui andavano di moda, perché avevano una funzione utile, le cooperative di consumo per cui il personale dell’ente ne aveva costituito una alla quale io, sposato e largamente provvisto di prole, mi sono iscritto.

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Cooperative di consumo

Per alcuni anni sono rimasto un cliente occasionale che frequentava la sede sociale molto saltuariamente ma da un certo giorno in poi ho cominciato ad interessarmene molto più attivamente. Probabilmente i gestori lo avranno notato e ne avranno attribuito la ragione alle cause più svariate perché inizialmente mi guardavano con un po’ di sospetto, ma non avrebbero mai potuto immaginare la ragione vera della mia aumentata presenza, né io volli mai esplicitarla.

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Vecchia cassaforte

Avevo riconosciuto in quella che custodiva il denaro in attesa del versamento settimanale in banca la vecchia cassaforte di mio padre. L’avevo riconosciuta all’istante perché non mi potevo sbagliare, neppure dopo tanti anni. Per me era unica, inconfondibile. Mi confermarono che era stata comprata a un’asta pubblica di mobili e arredi di un ente ormai disciolto e pertanto non avevo più dubbi.

Col tempo, acquisita maggior familiarità col personale e superato il loro sospetto che la mia presenza insolitamente frequente avesse uno scopo inquisitorio di controllo, gli amministratori mi presero in simpatia e chiesero anche a me di dar loro una mano e dedicare un po’ del mio tempo alla contabilità dei due spacci aziendali. Divenni poi membro del consiglio d’amministrazione e vi collaborai attivamente per qualche tempo.

Le cose andarono bene per un po’ fino a quando cominciai ad avere delle sensazioni strane. Venne anche il mio turno di collaborare all’inventario delle merci di fine d’anno che furono ben lieti di affidarmi perché si trattava di lavorare gratis in giornate di festa e sebbene io non avessi alcuna pratica di ragioneria mi parve di cogliere un piccolo gioco di prestigio contabile eseguito sul valore della rimanenza di uno dei generi più venduti.

Quel valore a misura d’occhio mi pareva gonfiato, e di parecchio, ma non essendomi annotato i dati da me verificati e dovendomi affidare alla memoria che non costituisce documento il dubbio restava. Dapprima lo tenni per me poi mi decisi a parlarne con qualcuno ricevendone risposte piuttosto vaghe che non mi convinsero affatto. Tutto era molto incerto tranne una cosa che m’appariva chiarissima: se dolo c’era stato ci doveva essere anche connivenza di tanti e non poteva essere opera di uno solo.

Tenni il gruppo in osservazione senza rilevare nient’altro di significativo finché non capitò l’occasione della gita sociale. Uno dei più grossi pastifici italiani invitava spesso i suoi migliori clienti a visitare la sua fabbrica di S. Arcangelo di Romagna e li ospitava presso un albergo di sua proprietà a Rimini, dove il titolare dell’azienda possedeva anche una grossa barca da diporto con la quale portava a spasso in mare i suoi ospiti.

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Pastificio industriale

Una forma di promozione simpatica da preferire senz’altro alla oscena bustarella che usano altri grossi fornitori. Il parteciparvi non mi metteva in imbarazzo e ci andai volentieri anch’io. Fummo sistemati in albergo, due per stanza, e caso volle che dividessi la camera col gestore con il quale nel frattempo mi pareva di aver trovato un buon livello di collaborazione e un rapporto personale molto cordiale, e una buona familiarità.

Lui mi avvisò: “guarda che io nel sonno parlo e mi agito, non ci fare caso.” Era vero. Parlava molto, a voce alta, e si agitava. Lui sapeva di parlare ma non immaginava però quello che gli usciva di bocca. Non saprà mai d’aver esplicitato molto chiaramente che rubava. Era un uomo che aveva evidentemente la coscienza inquieta e viveva sempre teso, nell’incertezza del domani. La sua mente anche nel sonno correva lì, dove era la radice dei suoi problemi.

Ebbi quindi conferma dei sospetti che mi erano sorti in occasione dell’inventario di fine esercizio sommati alla perplessità suggerita dalla preoccupazione e dalla inquietudine che trasparivano dal suo comportamento all’approssimarsi delle elezioni per il rinnovo delle cariche sociali, che si approssimavano.

Sondai il terreno e verificai che accusandolo apertamente avrei trovato l’ostilità di tutti gli altri componenti del consiglio che o per ignavia o per convenienza lo sostenevano. Avevo dunque una certezza morale ma senza nessuna prova da esibire per supportarla. Una storia del genere finisce quasi sempre in tribunale dove non puoi andare a dire che hai la sensazione che il tale rubi e che lo ha anche confermato lui stesso, nel sonno.

Era chiaro che sul piano pratico in uno scontro diretto avrei fatto ridere la gente ma avevo già allora, ed ancora mi resta la fiducia che sempre, ma soprattutto in casi del genere, il tempo sia galantuomo. Di bilanci non capisco nulla e so che esistono artisti del trucco ma sono certo che non si possa continuare a rubare a lungo in una piccola azienda, dove i nodi fanno presto a venire al pettine. Mi trovavo comunque in una situazione imbarazzante e non volendo rimanerci ancora impigliato decisi di defilarmi prima di restarci coinvolto e mi ritirai col pretesto di voler dedicare più tempo all’università. Lui intuì che avevo compreso qualcosa e mi pregò con molto calore di restare, facendo appello alla nostra nascente amicizia, ovviamente senza convincermi.

Diceva che gli sarebbero mancati la mia collaborazione e il mio consiglio ma, in realtà, temendo che volessi creargli problemi mi chiedeva tacitamente di non tradirlo. Gli feci capire che non l’avrei accusato ma che lo lasciavo cuocere nel suo brodo.

Lasciai e me ne andai volgendo l’ultimo sguardo alla mia amata cassaforte. Confesso che provavo un senso di fastidio al pensiero che fosse stata tradita e oltraggiata anche lei, che aveva rappresentato una condizione di sicurezza per mio padre nel suo lavoro per gran parte della vita. “Ne usciremo, vedrai”, fu questo il messaggio che le inviai mentalmente salutandola. Mi sembrò che con un lampo riflesso di luce mi rispondesse: “Va pure, non ti preoccupare, qua ci penso io!”

Una cosa la potevo fare e la feci. La chance del gestore per assicurarsi il rinnovo della carica poggiava sul dato che lui stesso reggeva anche la segreteria della sezione aziendale di una forza politica che purtroppo, da un lato, e per fortuna dall’altro, era anche la mia. Non potevo lasciare che la sua disonestà individuale coinvolgesse l’onorabilità di tanta altra gente che non c’entrava per nulla e mi adoperai in modo che almeno in quell’altra funzione fosse accantonato e sostituito.

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Sezione di partito

A me bastava. A titolo personale poteva fare quel che voleva, visto che in consiglio glielo lasciavano fare, non m’interessava più di tanto, ma continuare a rubare con la copertura politica anche mia no, non glielo consentivo.

Poteva anche dispiacere per l’uomo che non era sgradevole ma la sua realtà era quella che era. Una delle tante zecche che infestano i partiti e si attaccano al loro pelo per succhiare pronti a saltare da un’altra parte quando sono scoperti. Non sono questi i miei amici.

Per i soci più accorti questo fu un primo segnale, piuttosto significativo e non trascorse molto tempo che la bomba scoppiò. Devo dirlo? Io lo sapevo che la mia vecchia arca sarebbe stata di parola e fu proprio lei a inchiodarlo, perché non emerse soltanto una forte perdita di gestione, che era stata nascosta ai soci alterando le scritture contabili, c’era anche un grosso ammanco di cassa che mise in moto la procedura giudiziaria e la liquidazione coatta. Il gestore messo alle strette si decise a restituirne una parte consistente ed evitò così la galera. Tutto sommato posso dire quindi che tutto andò per il meglio.

Delle arche continuo a pensare il meglio possibile, che su loro si possa fare sempre affidamento. Sulle alleanze, direi, molto meno. E’ un terreno tanto, ma tanto scivoloso.



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