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Rubrica: QUADRIFOGLIO

La Menorà

130 opere ricostruiscono l’avvincente storia del candelabro a sette bracci e la sua fortuna artistica in una mostra congiunta nel Braccio di Carlo Magno e nel Museo Ebraico di Roma
giovedì 1 giugno 2017

Argomenti: Mostre, musei, arch.
Argomenti: Religione

“Farai poi un candelabro, di puro oro battuto: il suo piede, il fusto, i calici, i boccioli, i fiori, siano tutti di un pezzo col candelabro. Abbia sei bracci che gli escono dai lati: tre da un lato e tre dall’altro. Sopra un primo braccio vi saranno tre calici a forma di mandorla, col loro bocciolo e il fiore; come pure sul secondo braccio e così in tutti i sei bracci che escono dal candelabro… Farai anche le sue lampade, in numero di sette… Un talento d’oro puro s’impieghi pel candelabro e per tutti i suoi accessori…”.

È con queste parole, tratte dal Libro dell’Esodo, che Dio ordina a Mosè di realizzare la menorah (מנורה), per essere collocata nel Tempio di Gerusalemme, insieme agli altri arredi sacri, in nome dell’alleanza con il popolo d’Israele. Questo simbolo potentissimo di luce e di sapienza è il protagonista assoluto di un’avvincente storia per immagini nella mostra “La Menorà: culto, storia e mito”, che si tiene in contemporanea nel Braccio di Carlo Magno, in piazza San Pietro, e nel Museo Ebraico di Roma. Come ha sottolineato la direttrice dei Musei Vaticani Barbara Jatta, è la prima volta che si dà vita ad una cooperazione così importante tra lo Stato della Città del Vaticano e la Comunità ebraica di Roma. Sono130 le opere esposte, con prestiti provenienti da importanti musei internazionali: 120 opere sono ospitate nel Braccio di Carlo Magno, secondo un percorso didattico e cronologico; solo 10 sono esposte nel Museo Ebraico, ma sono piene di significato e comunque inserite nel percorso museale permanente che comprende molte altre opere.

Roma è indubbiamente il luogo più adatto ad ospitare questa mostra (a parte Gerusalemme, dove, chissà, potrebbe essere ospitata prossimamente), perché gli ebrei a Roma vantano una presenza ininterrotta di oltre duemila anni. Il nucleo originario, insediatosi tra il II e il I secolo a.C., era costituito da mercanti e schiavi liberati. La comunità si accrebbe enormemente dopo la conquista di Gerusalemme del 70 d.C. I rilievi dell’arco di Tito che raffigurano il corteo trionfale dell’imperatore, con gli arredi depredati dal Tempio, tra cui il candelabro a sette bracci, tramandano il ricordo dell’inizio della diaspora di questo popolo nell’Impero, mentre la moneta Iudaea capta, coniata all’epoca, doveva tristemente ricordare loro la perdita dell’indipendenza nazionale, riconquistata solo nel 1948 con la fondazione dello stato di Israele.

La menorah portata a Roma da Tito probabilmente non era quella originaria, in quanto prelevata dal secondo Tempio di Gerusalemme (il primo fu distrutto da Nabucodonosor II nel 586 a.C.), ma era pur sempre un preziosissimo oggetto d’oro che venne collocato nel Templum Pacis, il grandioso foro edificato con i proventi della guerra giudaica. Ed è soprattutto nella Roma imperiale che la menorah diventa il simbolo identitario del popolo giudaico, nello stesso momento in cui prendevano forma i simboli cristiani del chrismon e della croce. Un frammento marmoreo della Forma Urbis esposto in mostra è relativo alla topografia dell’area del Templum Pacis, quando in esso era custodita la menorah. Ma decisamente più spettacolare è il grande calco del rilievo dell’Arco di Tito raffigurante il bottino del Tempio. Moltissimi sono i reperti marmorei provenienti dalle catacombe giudaiche di Villa Torlonia e di Vigna Randanini, più rari i preziosi vetri decorati in oro, i monili e i gioielli appartenuti ad ebrei. Tutti questi oggetti raffigurano la menorah, che, insieme alla luce divina, evoca il roveto ardente, l’albero della vita, e il sabato biblico.

A Roma a un certo punto si perdono le tracce della menorah, ma non le leggende riguardo a una misteriosa collocazione, per esempio in fondo al Tevere o addirittura sotto l’altare del Laterano. Forse razziata dai Vandali di Genserico durante il sacco del 455 e trasportata a Cartagine (e da qui forse a Costantinopoli), o prima ancora dai Visigoti di Alarico nel 410 (e qui la leggenda si complica ulteriormente perché Alarico sarebbe stato sepolto con il suo tesoro nel Busento, uno dei due fiumi di Cosenza, in una introvabile tomba). Due dipinti raffigurano i due sacchi di Roma effettuati da queste popolazioni. Quello con Il Sacco di Alarico è di Joseph-Noël Sylvestre (1890), mentre Il Sacco di Genserico è del russo Karl Pavlovic Brjullov (1833-35). Se per i Romani la menorah aveva comunque un importante significato simbolico, tanto da essere custodita in un tempio, lo stesso non si può dire per le popolazioni barbare che potrebbero averla fusa per ricavarne monete o gioielli.

La mostra, a cura di Arnold Nesselrath, Alessandra Di Castro e Francesco Leone, è articolata in tre grandi nuclei, a loro volta suddivisi in sezioni. Il primo è relativo alla storia del candelabro fino alla sua dispersione in età imperiale e comprende molti reperti archeologici. Un’opera straordinariamente importante, in quanto proveniente da una sinagoga della Galilea del I secolo, è la cosiddetta Pietra di Magdala, rinvenuta in uno scavo di qualche anno fa. Attesta l’incisione della menorah all’epoca della presa di Gerusalemme. Il secondo nucleo tratta il mito della menorah nel tempo e nello spazio fino alle soglie del XX secolo, non solo come elemento aggregante del popolo ebraico, ma anche analizzandone l’appropriazione in ambito cristiano per la creazione di candelabri cerimoniali. Oggetti straordinari esposti sono la Bibbia di San Paolo fuori le Mura, di epoca carolingia, gli imponenti candelabri a sette bracci cristiani risalenti al XIV e XV secolo (tra cui quello del Santuario della Mentorella con una base a tarsie in porfido e serpentino), i giganteschi candelabri d’argento provenienti da Maiorca, argenti barocchi romani, arazzi e notevoli dipinti di artisti, quali Giulio Romano, Andrea Sacchi, Nicolas Poussin che lo hanno inserito nelle rappresentazioni del tempio di Gerusalemme. Di Poussin, in particolare, si ammirano due grandi tele, raffiguranti entrambe La distruzione del Tempio di Gerusalemme. La prima, esposta nel Museo Ebraico, è datata al 1625-1626 e proviene dal The Israel Museum di Gerusalemme, La seconda, ospitata nel Braccio di Carlo Magno, è del 1638 e proviene dal Kunsthistorisches Museum di Vienna.

Il terzo nucleo, infine, illustra le raffigurazioni del simbolico candelabro nel linguaggio espressivo degli artisti del XX secolo, tra cui Marc Chagall e Antonietta Raphaël, e del XXI secolo.

P.S.

LA MENORÀ. CULTO, STORIA E MITO

Dal 16 maggio al 23 luglio 2017
Catalogo Skira
BRACCIO DI CARLO MAGNO. Piazza San Pietro, Città del Vaticano
Orari: lunedì-martedì-giovedì-venerdì-sabato ore 10,00-18,00 (ultimo ingresso ore 17,00); mercoledì: 13,00-18,00 (ultimo ingresso ore 17,00). Chiusura: domeniche e festività religiose (29 giugno)

MUSEO EBRAICO DI ROMA. Via Catalana, Roma. Orari: da domenica a giovedì ore 10,00-18,00 (ultimo ingresso ore 17,15); venerdì ore 10,00-16,00 (ultimo ingresso ore 15,15): Chiusura: sabati e festività religiose (31 maggio, 1 giugno)
Biglietto unico Braccio di Carlo Magno + Museo Ebraico di Roma, e viceversa: € 7



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