Rubrica: PASSATO E PRESENTE |
FemminicidioPerché gli uomini ammazzano le donne?
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giovedì 1 dicembre 2016
Argomenti: Attualità Argomenti: Sociologia Della violenza sulle donne e sulla condizione delle donne che subiscono violenza penso che il dibattito sia ampio e il problema a lungo discusso (mi auguro che continui ad esserlo). Io porrò il problema dall’altro versante: perché gli uomini violentano, uccidono le donne? Ho letto più volte ricondurre la causa, tra le altre, al lato oscuro degli uomini e al mostro che è in loro, come se in essi albergasse una natura indecifrabile, incomprensibile, sul piano dell’umano. A parte il fatto che in Italia gli uomini potenziali di violenza sono, secondo le statistiche, il venti per cento dei maschi (che non è poco), io credo che la questione vada posta investendo il sistema culturale di riferimento nel quale siamo immersi. Di fatto, questo lato oscuro risiede nel ruolo centrale assegnato all’uomo nella società, e al ruolo di dominio sulla donna. Se spostiamo lo sguardo dal soggettivo alla società ci accorgiamo, infatti, che sono gli uomini a gestirla, ad essere rappresentativi di essa; basti considerare quell’aspetto del sacro civile costituito dall’inno nazionale, tutto improntato al genere maschile: “Fratelli d’Italia”… e le sorelle? Non ci sono, l’inno è tutto sulle virtù maschili, quelle delle armi, dell’“Elmo di Scipio”, un guerriero, fino al sacrificio estremo “siam pronti alla morte”. L’assenza delle sorelle si spiega, forse, col fatto che le sorelle: donne, madri, partoriscono i fratelli, e li preparano alla vita piuttosto che alla morte. Di fatto non ci sono lati oscuri degli uomini, se noi consideriamo la violenza e il femminicidio in una prospettiva storica, culturale e sociale. Il sistema dei valori, dei modelli di comportamento, delle identità di genere, della assegnazione dei ruoli, condivisi e convissuti, e quindi comuni, sia nella sfera primaria (famiglia) sia nella sfera secondaria (società) del nostro sistema culturale, funzionano, di fatto, da potenti strumenti di consenso e controllo sociale. (W. G. Sumner, Folkways, Boston 1906). Essi sono così forti da essere considerati “fatti sociali”. Afferma Durkheim, uno dei più grandi sociologi del XIX secolo, che: “i fatti sociali consistono in maniere di agire, pensare e sentire esteriori all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono” (Durkheim, Le règles de la metode sociologique, Parigi 1950). “I fatti”, non potendosi ricondurre ai fatti della vita organica, né a quelli della vita psichica, possono venir chiamati sociali (Durkheim, ibidem). Di fronte a questa posizione statica si dà la possibilità di derogare dal sistema normativo comune, essendo la società un organismo sottoposto a un processo dinamico. Il derogante, tuttavia, appare un diverso, una minaccia, per questo viene messo al bando dalla società, fino a che, nel lungo periodo, prende forma un cambiamento condiviso. Per secoli il “dispotismo domestico” è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Come ha in modo chiaro espresso il filosofo John Stuart Mill già nel XIX secolo, le donne, dotate di una natura irrazionale, uterina, utile principalmente alla procreazione (vedi oggi il Fertility Day) e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del Pater Familias (vedi il nostro Codice Familiare, in uso fino alla fine degli anni Settanta). Sprovviste di autonomia morale, le donne sono state costrette ad incarnare tutta una sere di “virtù femminili” come l’obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo, fino alla rinuncia definitiva, al disinteresse, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società, essere considerate donne di malaffare. In casi estremi, subire la morte come punizione. Per approfondire questo discorso, vorrei fare appello alla dimensione del sacro, cioè a una dimensione assoluta, metafisicamente fondante. Penso all’origine dell’umanità, almeno nella nostra cultura, dove la donna nasce dalla costola dell’uomo, quindi sua proprietà, una donna che non ha altra identità da quella conferitale dall’uomo, di cui è un accessorio per servirlo e riprodurne la specie. Un accessorio non dotato di intelligenza né di anima, tanto da lasciarsi tentare, commettendo un peccato che ha compromesso l’uomo di fronte all’essere supremo, Dio. C’è un passo molto significativo nell’Antico Testamento, che ci fa capire il valore della donne, o meglio il non valore. Per sancire l’interdizione dell’incesto, Jahvè parla a Mosè in questi termini: “La nudità della donna di tuo padre tu non la scoprirai: perché si tratta della nudità del tuo stesso padre.” Ora dobbiamo chiederci quale sia il sistema di trasmissione del codice normativo? Premesso che un sistema di trasmissione debba essere trasmissibile, deve necessariamente essere comprensibile a coloro che ne condividano i presupposti. Ebbene, è molto semplice da individuare, si tratta del codice di trasmissione linguistico, cioè un sistema simbolico di trasmissione universale (universalità relativa al gruppo, alla comunità che partecipa allo stesso codice di trasmissione del sistema normativo): la lingua. Il codice linguistico onnicomprensivo dei simboli linguistici è, per quanto ci riguarda, il dizionario della lingua italiana. Vorrei qui portare la mia esperienza di giovane studiosa nella presa di coscienza dell’identità della donna come definita dai codici culturali espressi dalla lingua italiana. Esperienza che ho testimoniato in forma poetica in uno scritto dal titolo Voce Donna.
Lo Zanichelli consulto
Il mio semantico incipit dal vocabolo uomo prende le mosse sì ché uomo si dice per parlar dell’umano Gioisco, mi esalto
Seguon le mentali attitudini
“Prometeo fece l’uomo
Virtù morali, politiche, sociali
La donna menzionata
Col più grande interesse
Si confonde il pensiero
“Donna, femmina dell’uomo
Seguono in ordine
Come femmina dell’uomo
Alla voce femmina
Decenni di pensiero e di lotta
Un lungo percorso d’autocoscienza
Per capire la recrudescenza violenta sulle donne e il femminicidio, dobbiamo considerare che oggi ci troviamo di fronte all’affermarsi di una rivoluzione straordinaria compiuta dalle donne, una rivoluzione copernicana, alla quale gli uomini non hanno partecipato, anche se hanno posto in essere gli strumenti tecnologici dell’emancipazione femminile dal “dispotismo domestico”. Qui sta il nodo da sciogliere della violenza. Mentre le donne hanno fatto un lungo percorso per riconoscersi, per liberarsi dagli schemi autoritari, per acquistare un’identità in sé e per sé, gli uomini sono rimasti ancorati ai vecchi schemi; così non capiscono, rifiutano di comportarsi a livello paritetico con le donne, non accettano l’autonomia femminile. E ciò accade indipendentemente dallo status sociale e dal livello culturale. Di fatto molti delitti a livello passionale (116 dal Gennaio all’Ottobre del 2016) sono da iscriversi al sintomo di quello che viene chiamato “declino dell’impero patriarcale” come se la violenza fosse l’unico modo per sopperire alla minaccia della perdita, per continuare a mantenere il controllo sulle donne, per ridurle a mero oggetto di possesso. A questo proposito, oggigiorno, è importante distinguere tra omicidio e femminicidio, che la maggio parte delle persone rifiuta, perché non ne riconosce la differenza, o perché legata ai vecchi codici (Michela Murgia, Il Manifesto, 25 Novembre 2016). Femminicidio non indica il sesso delle morte, ma il motivo per cui sono state uccise. La morte di una donna uccisa per rapina, non è un femminicidio. Il femminicidio si verifica nei casi in cui la donna perde la vita perché si rifiuta di comportarsi secondo le aspettative di ruolo che gli uomini e la società hanno storicamente assegnato alle donne. Ricordo che uno degli slogan per l’emancipazione femminile gridava “Non siamo puttane, non siamo madonne, ma donne, donne, donne”; cioè soggetti in grado di autoregolarsi, di determinarsi come singoli soggetti di diritto, senza schemi culturali precostituiti e ruoli ascritti. Il non coinvolgimento degli uomini al processo di emancipazione delle donne ha allargato lo iato, si è divaricata la forbice tra la volontà di autodeterminazione delle donne e l’atteggiamento di chiusura violenta degli uomini. Ciò ha provocato e provoca non di rado il femminicidio. Non è un caso che il maggior numero dei femminicidi si verifichi in Italia nelle regioni dove più numerose sono le donne emancipate: Piemonte, Lombardia e Veneto. In questa situazione di conflitto, quale ruolo possono avere le donne nel cambiare la situazione e il comportamento violento dei maschi? Credo che noi donne dovremo abbandonare la contrapposizione di genere e intraprendere un nuovo percorso di emancipazione che coinvolga gli uomini iniziando dall’età infantile, nei luoghi di socializzazione a cominciare dagli asili nido, dalla scuola materna, elementare e su, su fino alle scuole superiori. Penso alla formazione di piccoli gruppi misti, maschi e femmine. Per esempio, coinvolgere maschi e femminine in recite dove di volta in volta si invertano i ruoli, così che i maschi possano sperimentare la condizione dell’esser femmina. Istruttivo l’esperimento fatto da Costanza Boldry, docente di Psicologia Giuridica, che ha utilizzato un cortometraggio della regista Francesca Archibugi dal titolo Filippo ha picchiato Giulia. Nella recita è stato assegnato il ruolo di Giulia ad un maschio e il ruolo di Filippo a una femmina. Nella scena, quando Filippo picchia Giulia al massimo si dice “…ma dai, smettila”, mentre quando Giulia si ribella a Filippo succede la fine del mondo per insegnanti, genitori e quant’altri. Questo esperimento ha sortito uno shock e una presa di coscienza in entrambi i generi, maschile e femminile, in particolare sul bambino che interpretava la parte di Giulia. Diritti di copyright riservati |