Rubrica: QUADRIFOGLIO

CARAVAGGIO Tra Arte e Scienza (Paparo Edizioni. Napoli 2013)

Caravaggio sotto una nuova luce

Anche la scienza medica indaga per scoprire i misteri della figura di Caravaggio
martedì 23 aprile 2013

Argomenti: Arte, artisti
Argomenti: Recensioni Libri
Argomenti: Vincenzo Pacelli, Gianluca Forgione (a cura di )

Ha completamente ragione Arnauld Brejon de Lavergnée nella sua introduzione al volume Caravaggio tra arte e scienza (logo) - il recente impegnativo lavoro di cui Vincenzo Pacelli, noto studioso della pittura barocca napoletana, nonché espertissimo conoscitore della vita e delle opere di Caravaggio, è stato autore e curatore, affiancato da un giovane valente ricercatore come Gianluca Forgione- laddove chiarisce immediatamente la totale originalità e novità della pubblicazione “lontana anni luce da pubblicazioni recenti abbastanza strampalate …” e “a distanza siderale dal sensazionalismo di incaute operazioni editoriali e giornalistiche”.

Ed effettivamente è proprio così; il ponderoso volume, peraltro splendidamente illustrato, edito per i tipi delle edizioni Paparo, è ispirato a tutt’altri criteri. Innanzitutto si tratta di un lavoro di straordinario impatto interdisciplinare che lo rende unico e irrinunciabile per chiunque desideri allargare il proprio punto di vista sul grande artista lombardo.

Hanno infatti collaborato alla stesura del testo importanti studiosi di medicina, anatomia e in genere di scienza medica, ma anche un musicologo e un filosofo assai affermati; professionisti di primo piano, insomma, capaci di analizzare dettagliatamente in chiave prettamente scientifica aspetti della pittura caravaggesca non sempre al centro dell’interesse dei critici d’arte.

Come, solo per fare qualche esempio, “il dettaglio di pieghe cutanee (solo di pelle non di adipe) sulla fascia dei muscoli retti dell’addome” (fig.1) nel corpo da teen ager del giovane modello dell’Amor vincitore oggi a Berlino, o i “puntini (piccoli schizzi di sangue) e petecchie” intorno alle gocce grandi di sangue prodotte dalla corona di spine che “fa sanguinare il tessuto perforato” nella Flagellazione di Cristo di Capodimonte (fig.2) e così via, nel saggio di Giovanni Di Minno e Carla Cante.

Ma certo non vanno trascurati “gli spunti di natura storico-medica di Feliciano Baldi, Nicola Ferrara e Vincenzo Esposito” o le “relazioni accademiche indagate da Arturo Armone Caruso”, per non parlare delle osservazioni di Biagio De Giovanni “sui rapporto tra Caravaggio e la cultura bruniana secondo la problematica lente dell’Antirinascimento meridionale”.

Curioso poi è quanto fa notare Dinko Fabris a proposito del rapporto tra Caravaggio e la musica, cioè che “in tutti e quattro i soggetti musicali dipinti da Caravaggio a Roma, gli strumenti musicali e i libri di musica siano tutti antiquati, risalenti … tra il 1520 e il 1570 circa”.

Un’attenzione particolare meritano anche i notevoli saggi di operatori maggiormente impegnati sul terreno della tecnica, contigui alle problematiche artistiche legate alle opere di Caravaggio, esperti di restauro, diagnostica e radiologia artistica, restauratori di dipinti caravaggeschi come Giantomassi e Zari, Silvano e Maria Sasso, Bruno Arciprete, Anna Maria Marcone, Daila Radeglia, Carla Mariani.

Hanno anche collaborato studiosi come Roberta Lapucci, da tempo impegnata a proporre metodologie di indagine per il riconoscimento delle opere del Merisi, non certo stravaganti, ancorchè discutibili per gran parte degli esperti.

Oppure come Claudio Falcucci, uno dei maggiori esperti di diagnostica artistica, autore di un saggio che Francesca Cappelletti, nel suo contributo al volume, segnala “per la lucidità e il coraggio dell’intervento”

“ Nel suo scritto si leggono considerazioni e che circolano spesso fra gli studiosi ma che nessuno ha avuto ancora l’ardire di rendere ufficiali”, relative alle incisioni e ai pentimenti che consentono di avallare l’autenticità di un’opera di Caravaggio, quando però, nota la studiosa “non c’è una campionatura attendibile degli stessi dati sui dipinti caravaggeschi”.

Ma in quale misura la scienza e in particolare la scienza medica può contribuire a sciogliere almeno alcuni degli enigmi che, dopo tanti anni e tanti studi, ancora avvolgono la personalità, oltre che l’opera, del Merisi?

Si chiede Brejon de Lavergnée: “Di cosa dovette ammalarsi il giovane Merisi ? … quali elementi patologici possiamo dedurre dall’incarnato e dalla posa dell’Amorino Pitti? e dalla donna col gozzo della Crocifissione di Cleveland ? … perché non possiamo parlare di decollazione ma di sgozzamento del Battista nella grande tela di Malta?” (figg. 3, 4, 5)

Ecco alcune “affascinanti domande” cui rispondono in modo esauriente gli specialisti della medicina anatomo-patologi e circa le quali lasciamo al lettore il piacere dell’approfondimento.

Vero è che non è la prima volta che i dipinti del Merisi offrono il destro per studi ed analisi al di là di quelli meramente estetico-iconografici che competono agli storici dell’arte, almeno da quando Ruskin ne denunciò -è il caso di dire- “ i segni risoluti di malvagi desideri malamente repressi”.

In un documentato saggio di qualche anno fa (cfr Storia dell’arte, 1990) lo studioso statunitense John Varriano dava conto di come “with the advent of Freudian approches to the subconscious” le opere caravaggesche fossero state lette come riflesso delle sue vicende esistenziali, in chiave cioè di una vera e propria patologia dell’io.

In questa logica rientra, ad esempio, un testo di Mariano Patrizi, Un pittore criminale , risalente al 1921, ritenuto “ the first monography to do so”, e, più recenti, le “psycobiographies” che descrivono il Merisi come “phallo-narcisistic, self-destructive and sadomasochistic” (H. Roettgen, 1974) oppure “haunted by ’castraction anxiety” (L. Schneider, 1976) oppure ancora “fascinated with figures who are killed ’because they interfered in the sexual relationship of a powerful male authority” (C. Lewis, 1986).

La verità è che gli esordi romani di Caravaggio, i suoi comportamenti e i temi violenti di molti suoi dipinti sono considerati certamente facenti parte del suo modus operandi, che appare peraltro strettamente collegato con le norme pittoriche stabilite in quel periodo, ma discende anche dal particolare contesto nel quale egli si trovò ad operare.

A questo riguardo, in effetti, molto è stato detto e scritto, soprattutto su quanto la normativa controriformista tridentina in materia di arte abbia influenzato ed anzi determinato comportamenti e scelte collettive ed individuali.

Nel suo esauriente saggio, che si legge d’un fiato e sul quale ritorneremo, Vincenzo Pacelli ripercorre da par suo “aspetti e problemi della vicenda artistica” di Caravaggio, esponendo peraltro tesi nuove ed originali, che mettono in discussione elementi non secondari –umani e professionali- concernenti l’artista e che certamente faranno discutere.

Ma prima di addentrarci in questa disamina, occorre necessariamente dare conto, per quanto possibile in questa sede, anche di altri aspetti –oltre quello per così dire normativo- del contesto in cui si determinarono le scelte artistiche del genio lombardo quanto meno per quel che riguarda la scelta e l’uso delle immagini.

E’ noto, ad esempio, che appena qualche anno prima dell’arrivo di Caravaggio a Roma, erano apparsi testi come il Martyrologium Romanum (1586) di Cesare Baronio, o il Trattato degli strumenti di martirio (1591) di Antonio Gallonio, con le grandguignolesche illustrazioni di Giovanni Guerra, incise da Antonio Tempesta (fig. 6) che ben poco spazio lasciavano alla fantasia di chi avesse dovuto confrontarsi con quella materia.

Ma già alcuni anni prima, erano apparsi i Due Dialoghi di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, un testo che vide la luce appena dopo la chiusura del Concilio di Trento, con il saggio Degli errori dei pittori dove si raccomandava che Cristo e i martiri non fossero dipinti in pose ed espressioni idealizzate, ma “afflitti, sanguinanti, crocifissi, coperti di sputi, con la pelle strappata” ed altre piacevolezze del genere.

Qualche anno dopo, nel suo Tractatio de poesia et pictura (1595) il gesuita Antonio Possevino, grande alfiere della lotta antiprotestante, consigliava addirittura che i pittori provassero su se stessi l’orrore se serviva per meglio commuovere lo spettatore; ed inoltre Giovan Battista Lomazzo esortava gli artisti, nel suo notissimo Trattato dell’arte della pittura scoltura e architettura (1584) ad “osservare i gesti dei condannati … per annotare l’inarcarsi delle sopracciglia e i movimenti degli occhi”.

Non va dimenticato che le torture e le punizioni corporali costituivano spesso uno spettacolo dato– secondo la logica dell’esemplarità- a bella posta in pasto al pubblico e che in effetti attirava masse enormi di persone soprattutto dei ceti più bassi.

Non a caso i ‘maestri spirituali’ dell’epoca ritenevano che la qualità delle immagini si misurasse su quanto esse riuscissero a colpire la fantasia degli individui e quindi ad istigare all’azione; così che soprattutto nel corso del XVII secolo i predicatori avrebbero fatto un uso delle immagini che in seguito gli illuministi definiranno “delirante”, ma che allora di certo influì in modo determinante sui sentimenti del popolo.

Le figure dovevano tra le altre cose accendere le aspirazioni e amplificare le paure: un vero e proprio’manifesto’ didattico che di sicuro l’artista non poteva trascurare. Non certo casualmente, perciò, tanto nel mondo cattolico che in quello protestante, le esecuzioni venivano iscritte entro un rigidissimo cerimoniale religioso.

Nel suo Viaggio in Italia 1580-1581 Montaigne ne ha lasciato una precisa testimonianza attraverso la descrizione di un avvenimento del genere che aveva visto coi suoi occhi, con un condannato a morte che fino al momento di salire sul patibolo, accompagnato da membri di una confraternità, era forzato a baciare in continuazione un’immagine del Signore, fino al momento dell’impiccagione, alla quale faceva seguito il macabro rituale dello squartamento del corpo.

Era anche necessario, per la piena riuscita dell’esecuzione-spettacolo, che il criminale desse segno visibile del suo pentimento; un’idea piuttosto precisa di un simile rituale ci viene da un disegno attribuito ad Annibale Carracci, con ogni probabilità preso dal vero nel corso di una doppia impiccagione ( fig.7) avvenuta a Roma sul finire del Cinquecento.

Va precisato, che questo dell’impiccagione era lo strumento di morte più comune riservato a ladri ed assassini; il rogo invece era meno usuale, riservato a sodomiti ed eretici; infine la decapitazione era lo strumento di morte privilegiato, se si può dire, riservato com’era ai condannati appartenenti alle alte sfere e alle donne.

E’ stato calcolato che nel periodo di tempo in cui Caravaggio visse nella città pontificia (1596 ? – 1606) si siano avute 621 esecuzioni capitali, la più parte delle quali nei primi anni del pontificato di Clemente VIII Aldobrandini (1592 – 1605), quando la vox populi diceva “si vedono più teste al Ponte (il rione delle esecuzioni) che meloni al mercato”.

E’ assolutamente impensabile che Caravaggio non abbia assistito ad eventi del genere, alcuni addirittura ‘storici’, come nel caso del rogo a Campo de’ Fiori di Giordano Bruno e, appena un anno prima, nel 1599, della decapitazione di Beatrice Cenci presso Ponte Sant’Angelo.

E proprio a questo riguardo, un eminente studioso come Edward Safarik, in uno scritto di alcuni anni fa (cfr, Safarik, 1972, p.129) ebbe l’intuizione di associare l’esecuzione della giovanissima quanto sfortunata nobile romana al capolavoro ora a Palazzo Barberini della Giuditta che decapita Oloferne (fig.8)

Sarebbe, insomma, come dire che il grande genio lombardo interpretasse anch’egli con le sue opere la necessità di dover sollecitare la ricettività del pubblico, attraverso quella che veniva allora definita la “immagine eloquente”, ovvero il “visibile parlare”, teso alla formazione di un sapere modellato intorno alle nozioni basilari della religione (tridentina nel nostro caso, ovvero controriformata) cui le prediche dei sacerdoti e degli oratori davano voce e le creazioni degli artisti forma e colore.

Per quanto riguarda il Merisi, tuttavia, il discorso meriterebbe ulteriori approfondimenti, dal momento che per lui l’immagine acquista un senso solo nel rapporto ‘luce-verità’ che ingloba, se si vuole, perfino la scelta iconografica, senza contare, come scrivono Pacelli e Forgione nella prefazione al loro volume, “le straordinarie peculiarità della tecnica pittorica caravaggesca”.

Ma proprio per ritornare al Caravaggio tra arte e scienza, la vera sfida del volume consiste, come chiariscono i due autori, nel “far interagire con la storia dell’arte un’altra branca del sapere, la medicina” affinchè sia possibile rintracciare “tutti i casi possibili di patologia, fenomenologia della morte, conoscenza di anatomia umana o di fisiologia animale constatabili nei dipinti del Merisi”, un artista capace di raffigurare la realtà del suo tempo “senza cesure o mediazioni ideologiche, ma con infinita dignità, anche quando essa assumeva l’aspetto di un paralitico, di un uomo scannato (fig.9), del cadavere gonfio di una prostituta annegata nel Tevere (Fig.10)…”, nella consapevolezza che proprio alla storia dell’arte “spettino poi le riflessioni conclusive”.

E proprio in quanto tipico del lavoro dello storico dell’arte, conoscendo peraltro la totale idiosincrasia di Pacelli verso l’ ipotesi che Caravaggio replicasse i suoi dipinti – molto vicino in questo, alle idee di Roberto Longhi- i criteri scelti per la catalogazione sono stati “particolarmente restrittivi” privilegiando l’analisi di opere documentate o comunque “unanimemente attribuite” all’artista, isolando in un’apposita sezione del volume il problema “filologicamente assai spinoso dei doppi caravaggeschi”

Nondimeno e forse proprio per sgombrare il terreno dalle ipotesi ‘possibiliste’, lo studioso napoletano propone un punto di vista personale, proprio in relazione al tema dei ‘doppi’, sulla base di un’autorità acquisita sulla scorta di un trentennale lavoro di ricerca di insegnamento e di mera capacità di osservazione.

Proprio questo gli consente a ragione di rivendicare la ‘scoperta’ ieri della goccia di latte sulla barba di Cimone (fig.11) ne Le sette opere di misericordia dipinte per la chiesa partenopea del Pio Monte della Misericordia, oggi il problematico quanto studiato accavallarsi di corde, trini di cavallo, archetti, tastiere, casse armoniche, bacchette, tasselli e quant’altro nell’ Amor vincitore di Berlino (fig.12), dove “gli strumenti musicali rappresentano, come le figure umane o qualsiasi altro oggetto, elementi del mondo naturale con pari dignità e possibilità di raffigurazione”.

Faranno discutere invece (ed in parte già lo fa proprio Francesca Cappelletti nel suo contributo già citato), alcune personali tesi che Pacelli espone.

Come nel caso del declassamento o meglio del ritorno a copia della Cattura di Cristo di Dublino, un dipinto ritenuto disperso e rinvenuto pochi anni fa in Irlanda (ed oggi fiore all’occhiello di quella Galleria Nazionale) dallo studioso Sergio Benedetti, con un’attribuzione non a Caravaggio ma a Gerrit van Hontorst ( fig.13) che Pacelli ora ripropone.

Mentre invece promuove ad originale la Cattura di Cristo attualmente in collezione privata a Roma, ( fig.14) che a suo tempo Roberto Longhi aveva considerato copia ma che oggi, in forza soprattutto dell’intuito e della competenza dell’antiquario romano Mario Bigetti, sostenuto da un restauro eccellente che ne ha ridelineato l’eccezionale qualità, è accettato come autografo del Merisi da quasi tutti gli esperti.

Ci sono poi altre novità che lo studioso napoletano propone.

Ne citiamo solo alcune, a partire dall’idea che il genio lombardo abbia fatto tre tappe a Napoli, e non due come comunemente si crede, idea che si basa su informazioni che, dice Pacelli, “valgono quanto i documenti”.

” Nel settembre del 1607 –chiarisce infatti lo studioso- da una lettera del pittore Franz Pourbus veniamo informati che sono in vendita a Napoli due opere di Caravaggio: una Madonna del Rosario e una Giuditta con la testa di Oloferne. E’ possibile che il pittore possa essere tornato a Napoli per tutelare in qualche modo la vendita dei due quadri?” , dal momento che “il pittore non aveva nessuna ragione di rimanere a Malta dal luglio 1607 al luglio 1608, aveva per contro più di un ragione per tornare a Napoli”.

Senza contare, afferma ancora Pacelli, contestando la “immagine convenzionale di Caravaggio imposta dalla cultura ufficiale” che l’artista, con il suo comportamento (che com’è noto gli era costato la prigione), non certo adeguato all’abito di cavaliere gerosolimitano che aveva ottenuto, tuttavia “conferma quella scelta di campo già compiuta, di stare dalla parte popolare e di vivere la sua vita senza le regole imposte da una comunità”.

Un altro spunto di piena originalità rispetto alle tesi correnti è quello del “parallelismo” individuato tra Cristo e S. Giovanni Battista, che lo porta a considerare come, a fronte delle “ben dodici rappresentazioni della tematica giovannea” manchi proprio quella del battesimo, al punto da fargli avanzare l’ipotesi “che ci possa essere stato un prototipo (di Caravaggio, ndA) iconograficamente simile” a quello realizzato a Napoli da Battistello Caracciolo (fig.15).

Alla fine del libro, poi, Pacelli ribadisce le sue tesi più deflagranti, si deve dire, circa la morte di Caravaggio, tema già affrontato alcuni anni fa in un volume di grande impatto (fig.16) e ora brevemente riassunte contestando sia il luogo della marina toscana, Porto Ercole, dove il decesso, come pure comunemente si crede, sarebbe avvenuto, sia le cause (la sopraggiunta “febbre maligna” di cui parlano alcuni biografi).

Le sue tesi a questo riguardo sono tutt’altro che cervellotiche; innanzitutto, circa il luogo del decesso, Pacelli rimarca “l’impossibilità di colmare a piedi e per lo più affebbrato, i 200 chilometri che separano il litorale romano dalla località toscana”.

In secondo luogo, sulla base di quanto compare su un manoscritto dell’epoca, peraltro già reso noto qualche anno fa, e relativo ad un compenso parzialmente già versato al Caravaggio da un ordine religioso per un dipinto (“Il famoso pittore Michel’Angelo Caravaggio –recita il foglio- hebbe vicino a cento scudi per farci la pittura che aveva promesso…) si deve credere ad una morte violenta del pittore ( “…ma perché fu ammazzato –continua il manoscritto- si perdè la pittura con i denari”) e non ad una morte ‘naturale’ .

Su questa ipotesi Pacelli lavora da almeno tre lustri, pur riconoscendo che “al pari della morte toscana dell’artista per febbre malarica, non si fonda su alcuna certezza documentaria “ .

Tanto meno ha un qualche valore documentario il “foglietto volante di Porto Ercole” come lo chiama Gerardo Maria Cantore nel suo bel saggio, che riporterebbe il “presunto atto di morte del Merisi”, “fortunosamente ‘ritrovato’ dal parroco della chiesa di Sant’Erasmo a Porto Ercole” ma del quale “sono state già autorevolmente stigmatizzate le notevoli incongruenze che ne fanno verosimilmente un falso moderno”.

Insomma, alla fine occorre riconoscere come giustamente scrivono Castaldo e Silvestri nel loro contributo che smentisce l’ultima ’scoperta’in ordine di tempo, cioè l’inverosimile ritrovamento delle ossa di Caravaggio che “gli ultimi giorni di vita di Caravaggio, le cause della sua morte, il destino delle sue spoglie restano ancor oggi questioni mai del tutto chiarite”.



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