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Rubrica: CULTURA


4 gennaio 1960 - 4 gennaio 2010

Camus l’ultimo dei giusti nel cinquantenario della morte

Ricordo e attualità del suo pensiero
venerdì 1 gennaio 2010 di Elvira Brunetti

Argomenti: Arte, artisti
Argomenti: Celebrazioni/Anniversari


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Era il 4 gennaio del 1960, quando a soli 47 anni Albert Camus (fig. 1) incontrò la morte in un assurdo incidente d’auto.

Portava con sè una copia del suo ultimo ed incompiuto libro: “Il primo uomo” (fig. 2), una indagine autobiografica che corona la sua costante ricerca della verità, passata dal tema dell’Assurdo a quello della Rivolta, dalla Giustizia fino all’Amore, un ritorno alle origini, al grembo materno: “Ciò che resta è l’amore di una madre”. La sua era una donna povera e infelice, sorda e analfabeta, sempre silenziosa, specchio ed emblema di un’altra madre, la sua Algeria, di cui serbava nel cuore il profumo della bellezza di Tipasa e lo squallore della miseria della Kabylia.

Laureato in filosofia, non si sentì mai un filosofo, ma un artista, per l’uso nel ragionamento delle parole e non delle idee.

Aveva una passione straordinaria del teatro e come i Greci credeva alla felicità terrena: l’unico bene da inseguire. “La morte felice” è un’opera del 1938.

Il dramma dell’angelo nero “Caligola”, l’imperatore pazzo alla ricerca dell’Assoluto insieme al romanzo “Lo straniero” (fig. 3), l’europeo che uccide l’arabo nell’indifferenza del mondo e al saggio “Il mito di Sisifo” (fig. 4) costituiscono il ciclo dei tre Assurdi. Il macigno che l’uomo è condannato a spingere senza fine giustifica il desiderio di vivere? “Sì - dice Camus- perché l’uomo è più grande del suo destino, in quanto si rivolta”. La sua grandezza consiste proprio nella decisione di essere più forte della sua condizione.

Se l’Assurdo è la lucida ragione che constata i suoi limiti, la Rivolta è nell’amore di un uomo che non esiste ancora. Grande estimatore di Nietzsche, non ambisce a mere speculazioni, ma a comprendere il momento storico in cui vive. Qual è l’origine di un disastro? Come può una rivolta legittima diventare rivoluzione e sistema?

Redattore capo di “Alger Républicain” prima e segretario di redazione di “Paris-soir” dopo, dirige “Combat”, giornale clandestino durante la Resistenza e libero dopo. Comunista solo per due anni, rompe col partito perché lui è un uomo giusto, mentre i suoi superiori, istituzionalizzati, gli chiedevano di tradire il suo operato.

Alla fine degli anni ’40 pubblica due drammi: “La Peste” (fig. 5), in cui dopo la devastazione della città di Orano ad opera dell’epidemia, s’invita a vigilare perché il morbo terribile può sempre tornare, con chiara allusione alle dittature vigenti ed “I Giusti”, in cui si esalta la virtù dei terroristi del 1905 che uccidevano sì, ma con mille scrupoli. E’il momento in cui riscuote il successo del pubblico ed il riconoscimento della critica.

“L’uomo in rivolta” (1951) è un libro importante di Camus, perché ha scatenato una famosa querelle con il gruppo della sinistra ufficiale, le cui conseguenze hanno compromesso ed inficiato la memoria dello scrittore algerino. In esso egli coraggiosamente affronta la questione del comunismo e manifesta la sua avversione. Nel dopoguerra essere antistaliniano per uomo di sinistra e lui lo era fondamentalmente, malgrado lui e malgrado il momento storico, non era facile. Sartre, padre dell’Esistenzialismo e fondatore del giornale “Les Temps Modernes” diventerà soprattutto negli anni ’60 dopo Camus l’intellettuale egemone della cultura, perché era un borghese politicamente impegnato e non un voyou. Il tema della giustizia diventa il suo assillo quotidiano.

Soffre perché il suo paese natale è in guerra. Vive e comprende pienamente la condizione dei suoi connazionali senza un’identità precisa. Lo sdoppiamento disumano creato dalla colonizzazione. Lo sradicamento dell’Arabo a causa del Francese e l’estraneità di questo sia al suo luogo di origine che al mondo musulmano. Il dramma coloniale che conduce alla follia, in quanto, rivendicando una giusta appartenenza, esige quella separazione netta, ma impossibile nella realtà, del colonizzato dal colonizzatore.

Camus si rende subito conto che bisogna porsi al di sopra delle parti in un clima di giustizia universale che lo porterà alla condanna della tortura e del terrorismo da tutte e due le parti.

“Nessuna causa giustifica la morte di un innocente”.

Si pronuncia per la pluralità dei partiti politici algerini. Egli rappresenta nel dibattito che dura ancora oggi l’espressione più viva di una uguaglianza politica e sociale.

La sua attualità è insita proprio nel rifiuto, pur essendo francese, di essere a favore di una delle due comunità in lizza. Descrive le lacerazioni profonde, non del tutto sanate tra Algerini musulmani che rivendicano la terra di origine e Francesi d’Algeria che considerano ormai loro la terra dove sono nati. Accuse di tradimento gli piovono addosso da parte di scrittori e intellettuali, ma qualcuno afferma anche che la grandezza di Camus sarà compresa il giorno in cui la democrazia trionferà in Algeria. In un servizio di cronache redatte dal ’39 al ’58 con sguardo critico e sottile introduce il sentimento umano nell’atto politico. E se nella querelle con Francois Mauriac dopo la guerra a proposito della Epurazione esige la punizione dei collaboratori, mentre il redattore del “Figaro” ne chiede il perdono, non ha freni tuttavia ad esprimere: “Credo nella giustizia ma difenderò mia madre prima di essa”.

Nel 1957 viene insignito del premio Nobel per la letteratura (fig. 6). Anche in quel caso la sua estraneità al clamore degli eventi mondani gli fece esclamare: “E’ André Malraux che doveva vincerlo”.

Quest’anno il presidente Sarkozy ha chiesto alla figlia Catherine (fig. 7) il consenso alla traslazione delle ceneri del padre nel Panthéon di Parigi, dove giacciono i Grandi della Francia. Ebbene una parte della sinistra francese ha boicottato almeno per il momento l’adempimento di un’azione auspicata dalla maggioranza.

Forse bisognerebbe rileggere Camus per imparare dai suoi dubbi, per ammirare le sue prove di coraggio, per capirne l’alto valore civico nel tempo stretto della nostra vita, oggi, che si conclude il primo decennio del nuovo millennio all’insegna della paura.

Facciamo vivere i suoi scritti!

Jean-Paul Sartre (fig.8), amico e rivale, tre giorni dopo la sua morte scrive su”France Observateur” un articolo commovente, ad esaltazione del suo umanesimo, che lo aiuta inoltre ad uscire da quel silenzio nel quale spesso si chiudeva.

“Era un uomo in marcia, che s’interrogava e metteva in dubbio tutti noi, poiché era lui stesso una domanda senza risposta”, così si esprime Sartre nel famoso articolo. “Raramente i caratteri di un’opera e le condizioni del momento storico hanno richiesto così chiaramente che uno scrittore viva. Per quelli che lo hanno amato la sua morte è uno scandalo, c’è in essa un’assurdità insopportabile”.

Ma forse pochi uomini hanno la fortuna di vivere l’opera che creano. Per un ammalato di tubercolosi l’ultimo atto assurdo è la sorpresa di una morte assolutamente imprevedibile.

 

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