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Insegnare Auschwitz

In viaggio con gli studenti
mercoledì 13 maggio 2009 di Anna Maria Casavola

Argomenti: Luoghi, viaggi
Argomenti: Storia


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Sono stata insegnante nella scuola media superiore per trentasei anni, e tra i vari incarichi che ho ricoperto, nell’arco della mia carriera scolastica, non è mancato quello di accompagnatrice alle gite di istruzione (questa è la dizione ministeriale) in Italia e fuori d’Italia di ragazzi per lo più maggiorenni dell’ultima classe del triennio

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Le critiche che ci rivolgevamo al rientro erano sempre tante e anche tanti i problemi, a volte imprevedibili, che in quel breve esperimento di vita insieme avevamo dovuto affrontare. Riflettendoci ora, a distanza, penso che per un insegnante l’osservatorio che può offrire una gita scolastica di qualche giorno sia molto utile per affinare le proprie capacità relazionali e soprattutto per interagire con i ragazzi in modo diverso rispetto al tempo scuola, un modo più personalizzato, individualizzato che può veramente lasciare un segno

Nel corso del triennio il ragazzo compie un percorso di crescita, all’ultimo anno è un adulto, il viaggio permette di sperimentare un rapporto diverso tra insegnanti e allievi, non nel senso che gli insegnanti devono scendere al livello dei ragazzi, e mollare sulla disciplina e farsi permissivi al massimo, cose veramente deleterie, ma sperimentare un tipo di relazione alla pari, in cui i giovani possano sentirsi attori di primo piano, impegnati a conoscere e a comunicare le emozioni, le impressioni, gli stati d’animo, che i luoghi da visitare possono suscitare, interagendo naturalmente e spontaneamente, con i compagni e con i professori, visti questa volta come compagni di viaggio da ascoltare e interrogare.

Certo gli itinerari devono essere studiati in precedenza e rientrare sempre in un progetto cognitivo, educativo, guai all’improvvisazione e guai alla tentazione di cedere alle pressioni dal basso, al panem et circenses per intenderci .Le esigenze che si pongono agli studenti sono una misura della stima che si ha nei loro confronti. E’ questo un pensiero di un pedagogista russo A S. Makarenko che io ho fatto mio e che ho cercato di praticare come insegnante, credo, con profitto

Ho fatto queste considerazioni partecipando ad un viaggio della memoria ad Auschwitz nel novembre 2006, ero in qualità di accompagnatrice ma non di insegnante, il viaggio era stato organizzato dal Centro Studi sulle deportazioni della città di Brescia e dalla locale associazione ex internati nei Lager nazisti ( ANEI), gli studenti erano stati reclutati tra varie scuole superiori.

Io ero alla prima esperienza di un viaggio della memoria, fino ad allora non avevo avuto l’opportunità ma anche forza interiore di visitare un campo di sterminio. Ero convinta però dell’utilità di questi viaggi e della necessità di passare il testimone alle nuove generazioni per combattere la minaccia sempre più incombente del negazionismo Nel corso del viaggio ho ascoltato e parlato, a mia volta, con tutti i componenti del gruppo e cioè altri colleghi e studenti.

Interrogata su che cosa mi avesse determinato ad accettare l’invito, ho confessato che la mia motivazione non era dissimile da quella di un pellegrinaggio. Come nel Medio Evo cristianizzato ad un certo momento si era cominciato a sentire la spinta di andare a visitare in Palestina i luoghi santi dove era nato Cristo ed era stato crocifisso, per ritrovarne le tracce e riviverne la passione, così noi oggi – io dicevo - sentiamo che c’è un altro luogo dove andare a fare un pellegrinaggio laico e questo luogo è Auschwitz. Perché lì la dignità umana è stata offesa e negata come non mai e vi andiamo spinti da un bisogno di riparazione, seguendo inconsciamente il monito di Primo Levi, che si trova scritto all’ingresso del blocco 21, quello degli italiani ad Auschwitz: “Visitatore, da qualunque paese tu venga, tu non sei un estraneo. Fa che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte …”.

Oggi riflettendo sui processi dell’apprendimento, abbiamo capito che è diverso il conoscere dal fare esperienza. Una conoscenza se resta una nozione fredda, libresca non cambia il modo di pensare od il comportamento. La Shoah non si può insegnare come si insegna un teorema di geometria, non bastano, le conoscenze anche se sono fondamentali: l’umanizzazione passa attraverso l’identificazione con l’altro e la capacità di provare emozioni. Infatti la perdita di queste apre la strada alla barbarie, cosa che fu realizzata nella Germania nazista con la diseducazione dei sentimenti fornita ed imposta dalla scuola di regime.

Ricordiamo che cosa Hitler in particolare chiedeva alla scuola: “La mia scienza pedagogica è dura. Il debole deve essere spazzato via. Io voglio una gioventù che compia grandi gesta, dominatrice, ardita, terribile. Voglio una gioventù atletica, non voglio un’educazione intellettuale, il sapere mi rovina la gioventù …”.e poi.” Non è secondo i principi etici che l’uomo è in grado di elevarsi al di sopra del mondo animale, ma soltanto mediante la più brutale delle lotte” e quale era l’input che imprimeva nelle giovani menti? “Ciò che fai per il popolo tedesco e per la patria è sempre fatto bene

Quando i nostri studenti, una quarantina, alla fine del viaggio sono stati chiamati a verbalizzare su quello che avevano visto e provato e capito, attraverso la visita diretta dei luoghi, quando è stato loro chiesto dalla professoressa organizzatrice che cosa si portassero a casa, dopo questa esperienza, le frasi ricorrenti sono state: “Non immaginavo fino a questo punto” oppure “Sono confuso, ho bisogno di tempo per rielaborare, forse la vita stessa non basterà”. Per tutti un’esperienza certo indelebile, ma ardua da comunicare ed il pensiero più inquietante è che Hitler, personificazione del male, non era solo ma aveva un esercito di collaboratori ed un popolo che lo seguiva obbediente.

Come è stato possibile? E quale la distanza allora che separa i carnefici dalle vittime? Questo un tema che ha molto colpito ed è stato molto dibattuto, anche perché Primo Levi lui stesso ci mette in guardia “ Salvo eccezioni i nazisti non erano dei mostri, avevano il nostro stesso viso ma erano stati educati male “ Hanna Arendt, la filosofa ebrea, parla a questo proposito di banalità del male, cioè di individui non particolarmente malvagi in cui però la coscienza ha rinunciato al suo ruolo e si è identificata in tutto con quella del capo, si è cioè esteriorizzata, aiutata in questo dalla mancanza di memoria e di compassione. E ancora dai giovani è venuta la domanda più insidiosa e ricorrente, quella che tenta di razionalizzare l’irrazionale, di comprendere l’incomprensibile: “Ma che avevano fatto gli ebrei? Quale la ragione di tanto odio?”

Sospettare che le vittime si siano macchiate di qualche colpa è una reazione frequente e su questa domanda bisogna lavorare per dimostrare che è sbagliata, perchè nulla avevano fatto gli ebrei. In realtà i nazisti antisemiti non imputavano agli ebrei nessun crimine particolare, li accusano semplicemente di quello che erano, ebrei, cioè per loro una razza indegna di vivere.

Quali conoscenze sull’argomento avevano avuto in precedenza i giovani ? Pressoché le seguenti informazioni, necessarie per una precisa collocazione storica. di quanto avrebbero visto.

Auschwitz è il nome del campo di concentramento più importante dei tedeschi, fu aperto dopo la conquista della Polonia per rinchiudervi oppositori e notabili polacchi come preti e professori. Era un campo di concentramento simile a quelli che i tedeschi avevano creato a partire dal 1933, anno in cui presero il potere, per imprigionare chi li aveva osteggiati, cioè i socialisti, i comunisti, i cattolici e terrorizzare in questo modo l’intera generazione. A seguito di successivi allargamenti, arrivò a comprendere tre campi insieme: Auschwitz 1 (la parte preesistente più piccola), Birkenau (una vastissima distesa di novanta ettari coperta di baracche di legno), Auschwitz 3 o Manovice (una rete di circa quaranta sottocampi). Inizialmente era un campo di lavoro simile a quello di Dachau, costruito in Germania e a quello di Buchenwald o Ravensbruck (per le donne). Quando nel 1938 la Germania si annettè l’Austria, aprì il campo di Mauthausen, così in Polonia i nazisti aprirono Auschwitz (nome polacco Oswiecin) dove riutilizzarono i fabbricati di mattoni adibiti a caserma dai polacchi. Nasce quindi come campo di concentramento, poi diverrà anche campo di sterminio per gli ebrei. A partire dal 1942 vi furono deportati gli ebrei di tutta l’Europa occupata e furono costruiti gli enormi crematori con annesse le camere a gas che i tedeschi fecero saltare nell’imminenza dell’arrivo dei Russi.

I campi di sterminio veri e propri non avevano bisogno di grandi impianti di baracche visto che non erano destinati ad ospitare a lungo i prigionieri e di essi si parla poco perché non vi furono sopravvissuti che potessero scrivere testimonianze e raccontare quanto era successo. Sono i sommersi o i testimoni integrali come li chiama Primo Levi perché hanno visto il fondo e non sono tornati. Campi di sterminio sono stati Bergen Belsen (dove morì Anna Frank), Sobibor, Treblinka, Maidenek. Auschwitz è diventato il più famoso sia perché in esso si sono avuti il maggior numero di morti e poi paradossalmente perché è anche il campo in cui vi fu il maggior numero di sopravvissuti, uomini della Resistenza di tutti i paesi ed ebrei, i quali dopo la liberazione diedero vita ad importanti associazioni e fornirono molte testimonianze.

Auschwitz era al centro di tutti i territori occupati dai tedeschi, collegata con linee ferroviarie con tutte le più importanti città d’Europa, i treni arrivavano addirittura all’interno del campo di Birkenau, sicchè i deportati potevano essere selezionati appena scesi dai treni ed avviati alle camere a gas senza neppure essere immatricolati. Le persone uccise ad Auschwitz, secondo un calcolo approssimativo, sono state un milione e trecentomila, di questi duecentoventimila erano bambini. I Russi ne trovarono vivi duecento. La professoressa organizzatrice, illustrando ai giovani queste cifre della matematica della morte, ricordo che aveva aggiunto: “Finché qualcuno ricorderà e chiamerà per nome queste vittime, il nazismo sarà sconfitto”.I tedeschi, infatti. avrebbero voluto distruggere ogni traccia del genocidio che avevano perpetrato, avrebbero voluto seppellire i loro crimini nell’oblio del silenzio, ma almeno questa guerra l’hanno perduta: Auschwitz è diventata un memoriale per tutta l’umanità.

Ed ora vorrei dire io che cosa ha colpito me personalmente della visita al campo e che ho condiviso con il gruppo. Abbiamo cominciato la visita da Birkenau: un campo vastissimo di baracche (ora tutte ricostruite perché quelle originarie erano già marcite nel 1945), una specie di città dormitorio perché i deportati erano costretti di giorno a lavorare come schiavi fuori del campo nelle industrie, in campagna o nei lavori di manutenzione o di costruzione del campo stesso. La nostra guida era un polacco anziano, Joseph, che era stato bambino all’epoca e che non si limitava a spiegare, ci faceva immaginare, riflettere e la voce tradiva ancora l’emozione dei fatti che raccontava. Mi ha sorpreso ed ha, devo dire, contribuito ancora di più al processo di identificazione.

Ci siamo soffermati sulle fotografie, poste negli stessi luoghi che ritraevano e che documentavano il percorso degli ebrei dal treno ai crematori. Cento scatti fatti da un soldato tedesco ritrovati nel 1947. Le persone scendevano dai treni con strette le loro povere cose, trascinandosi delle valigie logore e pesanti e tenendo per mano i loro bambini, i loro anziani, ma tutti con un’espressione tranquilla negli occhi ignari. Non potevano immaginare quello a cui andavano incontro. Lungo la visita ci ha accompagnato un cielo livido, quello stesso che avevano visto i deportati in quegli anni di inferno. Così lo descrive uno di loro: “Vedemmo il grigiore nel grigiore, la disperazione ed il vuoto. Dovunque arrivava lo sguardo si vedevano baracche e filo spinato - dove passava la corrente ad alta tensione di 220 volt – interrotto minacciosamente qua e là dalle torri di guardia con le carabine automatiche e tutto velato dalla neve e dalla pioggia”.

I nostri ragazzi camminavano e guardavano in silenzio, assorti. Forse nell’immaginazione doveva sembrare loro di sentire i rumori degli stivali delle SS o i loro ordini urlati a voce altissima: “Schnell, schnell, raus, raus” … mentre milioni di sagome di prigionieri, sempre più scarni nelle uniformi a righe, si affollavano su quel vasto campo …così tanta è la forza evocativa di quei luoghi.

Ma i ragazzi italiani non erano soli, ci siamo incontrati con numerosi studenti di altre nazionalità che erano lì con i loro insegnanti e tutto quel raduno di giovani in quel luogo mi è sembrato di buon auspicio per quel ” mai più” che andiamo predicando.

Ad Auschwitz 1, di fronte al muro nero della morte, c’è stato un rito semplicissimo come una preghiera, i ragazzi hanno deposto, accanto a corone di altri paesi, una corona con la fascia tricolore, la bandiera italiana, ed abbiamo sostato per qualche minuto. Lì, ci è stato detto, erano stati fucilati migliaia di uomini (forse ventimila) prigionieri polacchi membri della Resistenza nel campo. In una stanza tetra del blocco 11 a pianterreno, dove tutto è rimasto come allora – persino il tappeto sul tavolo – si teneva una volta al mese una sessione di un tribunale speciale che emetteva, in circa due o tre ore, duecento verdetti di morte. I condannati dovevano spogliarsi nudi e poi essere fucilati dinanzi a quel muro.

Poi siamo entrati all’interno dei blocchi trasformati in grandi contenitori dei più disparati oggetti appartenuti alle vittime e meticolosamente conservati dai nazisti stessi per riciclarli. Abbiamo visto migliaia di valigie, di cesti, mucchi di occhiali, perfino stampelle, protesi di braccia e gambe, busti ed anche piramidi di scatole vuote da mezzo chilo di Zyclon B, il micidiale acido cianidrico, il gas usato per uccidere. I ragazzi procedevano a gruppetti ravvicinati, senza parlare tra di loro ma guardandosi ogni tanto negli occhi, quasi a trovare nell’altro una conferma di quanto stavano vedendo…Può essere la realtà superiore alla più truce immaginazione?

Proseguendo nel nostro percorso abbiamo visto poi fiumi di capelli umani che riempivano intere stanze - sette tonnellate ci hanno detto – capelli femminili, strappati alle vittime divenuti con il tempo incolori grigi spettrali…. Venivano utilizzati per farne tessuti, la tela di crine per le giacche, ed anche di questa ce ne erano rotoli e rotoli. Il numero sterminato di quegli oggetti mummificati ci aiutava a dare un’immagine concreta a quelle cifre astratte, al numero infinito di persone che in quel luogo erano entrate e sparite. In una vetrina ho visto isolate due scarpine con accanto una bambola di porcellana con il viso schiacciato: perché così da sole? Chi aveva voluto accostare quegli oggetti?Mi sono immagi- nata dei passini frettolosi di corsa ed un pianto di bambina per quella bambola così sfigurata, un dolore accanto ad un altro dolore.

A me e a tutti, credo, sembrava di vivere una situazione totalmente irreale, un incubo che ci incatenava e da cui non potevamo staccarci. Ma forse il colmo dell’orrore lo abbiamo raggiunto nella visita alle prigioni sotterranee dove in celle, simili a canili per l’angustia, venivano rinchiusi i prigionieri condannati a morire, senza pane, né acqua, né aria. In una di queste è morto Padre Massimiliano Kolbe, in un’altra più grande, tanto da riuscire ad entrarci, ho visto graffito sul muro un calvario con tre croci e sulla porta di fronte un Cristo coronato di spine. Vi era stato rinchiuso ed era morto un pittore polacco.

Alla fine quando siamo usciti all’aperto, era già notte (in Polonia la notte scende prima delle 16), Joseph, la nostra guida ci ha liberato dall’incubo, portandoci nello spiazzo dell’appello e indicandoci il luogo dove il costruttore e direttore di quell’orribile fabbrica infernale, il comandante Rudolf Hoess, era stato anche lui giustiziato, sul posto dei suoi crimini, processato dai sovietici ed impiccato l’11 novembre 1947.

 

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