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Guerra e sacrificio - edizioni Dedalo, Bari, 2007

IL SACRIFICIO COME RISCHIO NELLE GUERRE MODERNE

Una analisi del valore del sacrificio in rapporto alle guerre
mercoledì 7 gennaio 2009 di Carlo Vallauri

Argomenti: Mondher Kilani


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Mondher Kilani in Guerra e sacrificio (edizioni Dedalo, Bari, 2007) compie una sottile analisi del valore del sacrificio in rapporto alle guerre, ed in particolare – sul piano antropologico – ricorda come il sacrificio sia considerato un dispositivo indisponibile per sublimare, canalizzare, addomesticare la violenza, per ristabilire l’equilibrio sociale. Queste osservazione, come scrive Anna Maria Rivera (traduttrice del libro) nella prefazione, sono però chiarite da Kilani, quando mostra gli aspetti più problematici e indipendenti del fenomeno, comprese l’indifferenza o la crudeltà.

L’autore affronta, con una serie di esempi e di richiami storici e filosofici, il concetto di guerra “a zero morti”, come si è diffusa nella nova condizione post-moderna della società internazionale. Da un lato “il sacrificio di sé”, dall’altro “il sacrificio dell’altro” infliggono una “morte volontaria”. Occorre allora approfondire il significato di un sacrificio che apporta comunque una “distruzione”. Nel XX secolo il sacrificio degli ebrei è stato pianificato e compiuto dagli esecutori con un’azione logica e razionale (“razionalità del male”).

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Mondher Kilani

Risalendo al sacrificio umano di Abramo, Kilani si chiede se i recenti fenomeni dei terroristi islamici rispondano ad un criterio di scelta di “martirio” oppure a mero “nichilismo”. Al fine di comprendere tali eventi occorre rifarsi all’idea contemporanea di guerra catastrofica che implica un rischio, contrassegnato dalla possibilità di “zero errori”. Ma la guerra di per sé vuol dire “certezza della catastrofe”.

Come ha scritto F. Cardini: “Con la Prima guerra mondiale sono finite le guerre com’erano intese ai tempi di Omero o anche di Napoleone. Cosa vuole, ormai la guerra è faccenda di chimici, fisici, ingegneri. Direi che è un incidente. O che è una catastrofe …”. La distinzione tra “amico” e “nemico” ha assunto un significato di necessaria immediatezza e “reciprocità” negativa.

“L’uso della violenza è legittimato nell’ambito di un mandato internazionale per il mantenimento della pace, a geometria variabile: una volta è l’Onu, un’altra volta è la Nato, un’altra ancora un’alleanza ad hoc, secondo gli interessi, beninteso, degli Stati Uniti”. Ed ancora “Ormai, in nome della sicurezza internazionale, la guerra diventa un’operazione per il mantenimento della pace”.

D’altronde “La guerra contro il terrorismo, coniugata con lo stato d’eccezione, coincide con la tesi di Carl Schmitt a proposito dell’eccezione come base di formazione di un nuovo ordine di diritto (un ordine dove il non-diritto s’iscrive nell’ordine giuridico), nel quale la sovranità è associata con la capacità di sospendere il diritto”.

In tali condizioni “La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. (…) Ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi, poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, e un mezzo senza scopo non può mai concepirsi”.

Si perviene così alla fase estrema dell’ostilità: la guerra totale. La guerre totali contemporanee conducono alla assoluta radicalità degli obiettivi perseguiti, donde “questi non si limitano più all’invasione di una regione o al controllo di determinate risorse economiche, per esempio, ma diventano assoluti. Si tratta cioè di ottenere una resa senza condizioni da parte del nemico, una resa che può portare alla distruzione totale”.

Una escalation “verso l’estremo”, secondo una logica militare ed “imperiale”. A questo punto Kilani si sofferma sui mutamenti intervenuti nei rapporti tra Islam ed Occidente, a seguito del sovrapporsi di tali esperienze. La violenza sacrificale resta al centro della guerra, ed il sacrificio ne è la forma “estrema”. Una società così costituita partecipa al sacrificio “incalcolabile” e l’organizza prefiggendosi il “buon funzionamento” di tali operazioni, generando una evidente indifferenza di fronte alla guerra. Rovesciando precedenti idee ottocentesche la violenza diviene “legittima” ed è considerata “negativa” a causa del suo eccesso, in quanto “difetta di regolazioni”.

Il libro richiama vari autori che si sono occupati di questi problemi, e Kilani tiene a mettere in rilievo come l’alternativa al meccanismo sacrificale sia il “contratto sociale”. In polemica con René Gilard, sostiene che “le società hanno la facoltà di scegliere fra il contratto sociale e il sacrificio. Avrebbero perciò la possibilità di rifiutare il pensiero sacrificale nelle sue diverse varianti – che gettano, tutte, la società nell’eteronomia, vale a dire sotto la tutela di un’autorità esterna, superiore e fuori portata – per adottare il principio dell’autonomia della società”.

E tale autonomia – come afferma Castoriadis – è connessa alla volontà e capacità della società stessa di “darsi da se stessi le proprie leggi”. È questo – possiamo notare – l’insegnamento di Spinoza.

 

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