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DUE FIORI PER STEFANIA

A proposito delle leggi raziali. Un bel ricordo d’infanzia.
lunedì 15 dicembre 2008 di Michele Penza

Argomenti: Ricordi


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Questa è la storia di un piccolo mazzo di fiori che avrei voluto portare in omaggio a una vecchia signora, tanti anni fa. Sembrerà strano, ma non potei. Può capitare, talvolta, che talune cose che sembrano facili, normali, diventino incredibilmente difficili, magari addirittura impossibili.

Ora che il tempo trascorso ha cancellato le differenze di età e che io stesso sono diventato ciò che Stefania era allora, cioè una persona avanti negli anni, posso considerare con serenità e distacco quegli avvenimenti che nel periodo in cui si incrociarono le nostre vite, lungo circa un decennio, ci sovrastavano, fatti dei quali allora non potevo comprendere il reale significato che mi si rivelò appieno più tardi, da adulto, ed ora posso anche riferirmi a lei indicandola col suo nome, cosa che all’epoca non mi sarei mai sognato di fare, perchè per me e per tutti i miei familiari Stefania era solo “la dottoressa”.

Si trattava di una vecchia pediatra, di origine polacca, che ha esercitato per molto tempo la libera professione nel quartiere Nomentano, dove era molto nota. In casa mia, con cinque bambini, il pediatra occorreva spesso e dal momento che Stefania aveva dimostrato in concreto di sapere il fatto suo in realtà aveva finito col divenire il nostro medico di famiglia, in modo che tutti, grandi e piccini, compresa mia nonna ultrasettantenne, ci affidavamo a lei.

Stefania godeva presso di noi di una stima e di un prestigio indiscussi, ma non posso dire che fosse anche altrettanto amata da noi bambini. A me in specie che avevo all’inizio dei miei ricordi un sei o sette anni incuteva, se non un vero e proprio senso di timore, certamente molta soggezione.

Appariva come una donna senza età, con gli occhi chiari come il ghiaccio e i capelli raccolti con le forcine in una crocchia, di un colore che non era più biondo e non era ancora canuto. Parlava lentamente, con voce bassa priva di accenti o inflessioni. Mai una parola in più del necessario. Non ricordo di averla mai udita ridere: talvolta, molto di rado, atteggiava il viso a una espressione che poteva, nella parte superiore attorno agli occhi, ricordare un sorriso. Si diceva che si trovasse in Italia per aver sposato un medico italiano, di cui non si avevano ulteriori notizie e di cui lei non parlava mai. Si sapeva invece con certezza che aveva un figlio, anche lui medico, agli inizi della carriera.

Erano la sua stessa personalità e anche il modo che aveva di formulare una diagnosi che mi imbarazzavano terribilmente. Si sedeva a capo del letto e mi osservava in silenzio; poi faceva qualche domanda a mia madre sulle mie condizioni; si rivolgeva quindi a me per chiedere ancora qualche chiarimento sui sintomi che accusavo, poi, con molta calma, iniziava a visitarmi sistematicamente seguendo un suo rituale consueto. - Ma perché - mi chiedevo io - se le dico che mi fa male la gola mi batte sotto le ginocchia con lo stetoscopio, e mi fa il solletico sotto i piedi con la penna? - A me sembravano comportamenti incomprensibili che sospettavo rappresentare la punizione per aver saltato la scuola. Quando poi mi ficcava un cucchiaio in bocca per esaminare la gola l’avrei strozzata con le mie mani. Terminata la visita iniziava a parlare con la mamma del più e del meno, all’apparenza ignorandomi, in realtà seguitando ad osservarmi attentamente di sottecchi, quasi per cogliere qualche dato che poteva esserle sfuggito prima o qualche elemento che, secondo i miei sensi di colpa, io avessi cercato di nasconderle. L’utilità di una fase di riflessione prima di giungere a delle conclusioni o prima di esprimere una qualsiasi opinione mi è stata inoculata così, in modo da farmela assimilare senza che nemmeno me ne accorgessi. Purtroppo il rituale della visita si concludeva di norma con la prescrizione di un purgante o peggio ancora di un clistere o, nel migliore dei casi, di una disgustosa spruzzata di acqua ossigenata sulle tonsille. Nulla di entusiasmante dal mio punto di vista.

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Tutto questo si protrasse per diversi anni e il nostro rapporto familiare con “la dottoressa” si conservò inalterato fino al giorno in cui ci fu annunziata una novità. Con la sua voce consueta e con tono indifferente, come se parlasse di cose avvenute altrove ad altre persone, Stefania ci raccontò di essere stata convocata al commissariato di quartiere, dove un imbarazzato funzionario di polizia le aveva notificato, ai sensi delle recenti disposizioni governative, che ai liberi professionisti di razza non ariana era inibito esercitare. Ricordo come ci descrisse la scena, e rivedo il volto impassibile di Stefania, mentre mi sembra di ascoltarne ancora la voce gelida e tagliente: - Commissario, lei che ha esperienza, mi consigli un buon posto dove andare a rubare!

Immagino il faccione confuso e sinceramente amareggiato del commissario che fa un sospiro profondo, allarga le braccia e dice: - Signora mia, cosa vuole da me! Se dipendesse da me a lavorare ci dovrebbero andare tutti, anche i malviventi, soprattutto loro, figuriamoci le persone come lei... Staremmo meglio tutti! Ma nessuno ci consulta mai; queste decisioni poi vengono da lontano, le prendono certi scienziati a tavolino. Creda, mi dispiace. Comunque... Non si faccia notare. Altro non le posso dire!

Questo racconto ci lasciò interdetti e senza parole. Conclusa la visita Stefania se ne andò tranquilla, come se quello fosse stato un giorno come tutti gli altri, senza fare altri commenti. Quello fu il primo di tanti silenzi di cui la nostra storia con lei si riempì a poco a poco. La vita continuò e riprese a scorrere in maniera che sembrava serena e normale, fino al giorno in cui si ammalò la maggiore delle mie sorelle. Sembrava trattarsi di uno dei tanti problemi viscerali che affliggono i bambini, in specie quelli un po’ ingordi come la mia sorellina. Cosa indusse mio padre a rivolgersi nella circostanza a un altro medico che gli fu consigliato da conoscenti? Certamente un pizzico di vigliaccheria, considerato che si sentiva un po’ esposto lavorando in un ente pubblico, ma è anche vero che riteneva suo dovere di buon cittadino l’attenersi alle regole e, ovviamente, considerava anche l’opportunità di evitare conflitti con le autorità, dai quali non c’e mai nulla da guadagnare per nessuno. Concorse anche, nella circostanza, una certa superficialità nel valutare le conseguenze pratiche della scelta, convinto come egli era di trovarsi di fronte a una indigestione o a qualcosa del genere.

Le cose andarono invece in modo tale che, dopo circa un mese di dolori e di febbri persistenti, i miei presero una saggia decisione e tornarono sui loro passi. Fecero appena in tempo: Stefania non si perse in rampogne o in recriminazioni inutili, perché l’appendicite era degenerata in peritonite e restavano solo poche ore di margine per salvare la vita della bambina. Disse soltanto: - Subito un taxi! - e volle accompagnare personalmente i miei da un chirurgo di sua fiducia, che fece bene le tre cose che gli erano tacitamente richieste: accettare la diagnosi senza alcuna esitazione, operare al volo mia sorella e dimenticare ancora più immediatamente di aver incontrato una vecchia amica, chiudendo la partita con un sorriso e una stretta di mano, e un altro di quei silenzi eloquenti cui accennavo prima.

Forse qualcun altro, in una situazione analoga a quella dei miei genitori, avrebbe commentato: - Non sarà proprio ariana, sono fatti suoi e del resto noi stessi neppure sapevamo di essere ariani fino all’anno scorso e campavamo lo stesso, si vede che questa cosa così importante non deve essere. Questa donna è il medico migliore che conosciamo. Canti chi vuole! - Loro invece, che per temperamento parlavano poco, ciò nemmeno si disturbarono a dirlo, ma sono sicuro che lo hanno pensato all’unisono tanto è vero che il problema della scelta del medico, se pure per un istante si era ripresentato sulla scena, da quel momento scomparve per sempre.

Allo stesso modo, probabilmente, si comportò un certo numero di persone alquanto esiguo ma incrollabile nella fiducia nelle capacità di Stefania, e determinato a non accettare le intimidazioni che oramai erano entrate a far parte dell’ufficialità, anche all’interno della nostra vita quotidiana. Lo atteggiamento mentale di tutti costoro non era assolutamente di sfida aperta alle autorità, e sarebbe falso spacciare oggi tutte quelle persone per antifascisti: non lo erano assolutamente e neanche noi lo eravamo. Dal momento che era sostanzialmente riuscita l’operazione propagandistica del regime di identificare se stesso con la patria, era psicologicamente difficile per i benpensanti una opposizione politica in toto, di rifiuto globale. Si ragionava piuttosto come fanno coloro che hanno una mamma vecchia, con un po’ di arteriosclerosi, che ogni tanto lascia il gas aperto o dice qualche sciocchezza. Le si perdona perché è la mamma, e tale resta, senza tenere conto della sciocchezza che ha detto. La patria poteva anche sbagliare ogni tanto: si faceva finta di non aver sentito!

Le leggi razziali furono emanate nel novembre del 1938 e nel 1940 il nostro paese entrò in guerra. Mio padre, come del resto altri componenti della famiglia, dovette partire e restò lontano da casa per lunghi anni. Che altro potevamo noi augurarci se non che le cose andassero bene per i nostri cari e, al tempo stesso, anche per la nostra amica? Oggi mi appare evidente la contraddizione, ma allora la confusione era grande. Furono anni grami, pieni di travagli e di sofferenze per tutti! “La dottoressa” restò per tutto quel periodo il nostro medico e per mia madre fu anche un’amica e un punto di riferimento. Era invecchiata e viveva in ristrettezza, potendo contare solo su un piccolo gruppo di amici irriducibili che sarebbe quasi offensivo chiamare, a questo punto, clienti. Era anche sofferente di cuore e camminava con sforzo evidente che appariva ancor più accentuato quando saliva le scale. Per capire ciò che dico occorre sapere che per quasi tutta la guerra nelle grandi città gli ascensori non funzionarono, per vari motivi che riguardavano sia la stessa erogazione di energia elettrica che la sicurezza.

La fine della guerra non risolse automaticamente, da un giorno all’altro, tutti i problemi che ne erano originati. La vecchia dottoressa poteva ora liberamente esercitare, ma la clientela di prima era ormai dispersa, i collegamenti con le cliniche e con gli altri colleghi si erano allentati, le forze fisiche erano molto scemate. Le cose, al di là di una teorica legittimazione della sua attività, non cambiarono realmente e in modo sostanziale per lei. Anche per noi continuavano i tempi di vacche magre. Mio padre, per fortuna, era tornato sano e salvo dai Balcani, ma non riusciva a trovare un lavoro che non fosse precario, come tanti altri reduci. Mia madre lavorava qualche ora del giorno come cassiera in un negozio di derrate e ciò le dava occasione di vedere spesso la nostra vecchia amica.

Fu in quel momento che mi ammalai. A Stefania non sfuggì che la questione era piuttosto seria. Dopo una diecina di giorni disse a mia madre: - Non serve più che lei mi chiami. Verrò da me quando lo riterrò necessario. - Ed infatti da allora ogni due o tre giorni si presentava spontaneamente a casa mia, per rendersi conto degli sviluppi della malattia. Io abitavo al settimo piano e, per fare le scale, le occorreva una buona mezzora e una gran fatica. Quando i sintomi furono inequivocabili disse ai miei che era necessario il ricovero in un ospedale specializzato. Riuscirono a farmi ricoverare dopo un’attesa di circa tre mesi, durante i quali ricordo di essere stato il malato più scrupolosamente curato ed assiduamente controllato di quanti mai in seguito mi capitò di vedere. Prima che io partissi, Stefania venne a salutarmi e in quella occasione, per la prima volta, uscì dal suo naturale riserbo. Mi chiese come occupassi il tempo e le risposi che traevo un grande conforto dalla lettura. Mi parlò allora di un libro che aveva finito di leggere in quei giorni e me lo consigliò: si trattava di “Kaputt” di Curzio Malaparte, un libro particolare di esperienze vissute o immaginate dall’autore in quegli anni feroci. Il secondo capitolo del libro, quello dedicato a “I topi”, aveva crudelmente ferito l’animo della vecchia polacca. Vidi per la prima volta il suo viso accendersi di passione e, sbalordito, la sentii mormorare: - Quel popolo dovrebbe avere una testa sola, per mozzargliela! - mentre il suo sguardo mi attraversava senza vedermi, guardando lontano. Una trance che durò solo pochi secondi, poi il consueto controllo riprese in lei il sopravvento:
- No, lascia stare, leggi piuttosto “La storia di S. Michele” di Axel Munthe: è un libro pieno di gioia di vivere e di amore per la bellezza. Sicuramente ti piacerà.

Ho ripensato spesso a quel colloquio e mi sono chiesto quale lettura potesse darsi di quel mutamento di indicazione. Le possibili interpretazioni potevano essere diverse: - Lasciami in pace col mio odio e coi miei ricordi. Sono miei e non voglio dividerli con nessuno. - Oppure: - A ciascuno i suoi guai. A noi è andata male, ma tu pensa alla tua vita e guarda avanti - Non era il caso di chiederle spiegazioni e questo fu ancora un altro di quei silenzi cui accennavo. La mia completa guarigione, da lei profetizzata, fu una ulteriore conferma della capacità professionale di Stefania, quindi nulla di nuovo. Ciò che ancora non avevamo conosciuto era la dimensione della sua generosità. Quando mia madre le chiese della parcella lo fece con una certa preoccupazione, comprensibile, data la nostra situazione economica tutt’altro che florida. La richiesta che venne fu di un’esiguità incredibile. Stefania non chiese nessun compenso per tutte quelle visite che aveva voluto fare spontaneamente, senza chiamata. - Non ha voluto umiliarci, ma in realtà non si è fatta pagare! - mi scrisse mia madre.

Quando tornai a casa, dopo quindici mesi di degenza, una delle prime cose che mi venne alla mente fu di andarla a trovare per ringraziarla personalmente, di tutto. Lo dissi a mia madre e le chiesi di rammentarmene l’indirizzo. Girò il capo dall’altra parte e non rispose. Questo fu l’ultimo dei silenzi che riempirono questa nostra storia, e che non hanno mai cessato di risuonare nel mio animo. Ma quella volta non lo sopportai: - Non è possibile! - esclamai. - Due mesi fa. Ora che hai tempo portale due fiori, da parte nostra.

Mi trovai davanti a una fila di banchi di fioraie piuttosto aggressive e vocianti. Ripiegai su una ragazza sorridente che non aveva banco, ma allineava pochi fiori su un tavolino di quelli a doghe, pieghevoli. Avevo pochi soldi e scelsi un bel mazzetto di ranuncoli freschi. La sorpresa mi venne dall’ufficio informazioni, dove il nominativo di Stefania risultava sconosciuto. Per rintracciare una donna, mi fu spiegato, occorre cercarla col nome da ragazza, non quello da maritata. L’impiegato era gentile e cercò di aiutarmi nella ricerca, ma fu inutile. Aveva voglia anche di filosofare: Pure all’altro mondo - disse - si saranno per forza organizzati allo stesso modo: uomini e donne, ognuno per conto suo. Se pensi che ci sono persone che si sono sposate due o tre volte capirai che una dislocazione sulla base della famiglia sarà problematica anche per il buon Dio, se c’è.

Già! Se c’è. Con tutti quei fatti che sono accaduti come non avere qualche perplessità in merito? Ora che ci penso anche Stefania non ne parlava mai, non esprimeva certezze ma nei fatti offriva agli altri il meglio di sé e li costringeva a divenire migliori, ponendoli di fronte alle loro responsabilità. Nel suo silenzio ci costringeva tutti a specchiarci in noi stessi. Certo, aveva un nonno ebreo di troppo e le mancava quel pizzico di arianità che ci fa così trendy, ma che volete farci, siamo esseri umani e nessuno è perfetto!

 



  • DUE FIORI PER STEFANIA
    9 gennaio 2009, di Fabio

    Grazie; grazie per la emozione provata nel leggere questa lettera ......anche attraverso questo tipo di gesti si puo’ realizzare l’ irrinunciabile diritto di
    "conservare la memoria" .

    Una splendida, semplice lettera che ci permette di riportare alla mente uno dei momenti più bui della nostra recente storia .

    Grazie per avermi permesso di condividere questa emozione .

    Fabio
    (fabiocaldani@alice.it)