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IL MISTERIOSO CARRO DEL PRINCIPE D’ERETUM E IL SUO LUNGO RITORNO NELLA SABINA

RIETI-PALAZZO DOSI-DELFINI 8 MAGGIO-10 OTTOBRE 2021
mercoledì 12 maggio 2021 di Patrizia Cantatore

Argomenti: Mostre, musei, arch.


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Dopo i mesi di chiusura, riapre a Rieti la Mostra “Strada facendo. Il lungo viaggio del carro di Eretum” allestimento che vuole essere un nuovo inizio per questo territorio. La celebrazione del ritorno nel cuore della Sabina, del ricco corredo funerario e del carro (o i carri) del misterioso principe Eretum, probabilmente vissuto nel VI secolo a.C. e sepolto nella Tomba XI della Necropoli di Colle del Forno (Montelibretti) che insieme a Cures (odierna Fara Sabina) rappresentavano il confine più a sud della regione popolata dai Sabini.

Quei Sabini che la Storia ricorda soprattutto per il Ratto delle Sabine (rammentato iconograficamente da sculture e pitture dal Rinascimento in poi) furono uno dei popoli di origine osca che attraversarono l’appennino e si stabilirono tra l’Alto Tevere, l’Aniene, il Nera e l’appennino Marchigiano. Un popolo in continua ricerca di pascoli e nuovi territori che premevano sul territorio dei Romani. Infatti, si confrontarono a lungo per diversi secoli con alterne fortune, sarà con la battaglia di Veio vinta dai Romani contro Veienti e Sabini nel 494 a.C. , e la campagna del console Manio Curio Dentato, conclusa nel 268 a.C., che si giunse alla fusione tra Sabini e Romani con la concessione della civitas sine suffragio (cittadinanza senza diritto di voto).

Il sito di Colle del Forno con la Necropoli furono frutto di una scoperta casuale avvenuta nel 1970, durante lavori di sistemazione nel sito che avrebbe dovuto ospitare l’Area di Ricerche romana del CNR, la scoperta fu nascosta e la tomba svuotata degli elementi che avrebbero potuto più facilmente venduti sul mercato illecito. Portati in Svizzera dal noto trafficante Giacomo Medici, le opere trafugate per poter essere vendute ad un prezzo molto alto furono ripulite fortemente, come per far credere che fossero d’oro (mentre si tratta di bronzo) e, la trattativa di vendita fu incaricata dall’intermediario americano Robert Hecht alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen.

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Bardature equine del Principe d’Eretum

Solo nel 2006 i materiali saranno esposti come fossero appartenenti ad un solo carro in occasione del nuovo allestimento della collezione etrusca del Glyptotek grazie anche alla collaborazione con gli archeologi italiani del CNR. Nella esposizione, in attesa della restituzione all’Italia dei reperti, fu creato un sito nel quale si poteva navigare virtualmente nella sepoltura vedendo a distanza i reperti al Glyptotek e al Museo di Fara Sabina.

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Lamine in bronzo del carro

Sarà nel 2016, grazie all’intervento dei Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) che i reperti saranno restituiti all’Italia, infatti, già dal 1995 il TPC avrebbe potuto provare la provenienza illecita grazie ad alcune polaroid nelle mani dei trafficanti e rinvenute, così come le segnalazioni di archeologi italiani già dal 1979. Nel 2016 si concluse l’accordo tra il MIBACT e la Glyptotek di Copenaghen e il carro tornò prima in mostra a Firenze, nelle Gallerie degli Uffizi e poi a Roma, nella Sala della Lupa di Montecitorio.

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Ricomposizione del carro da parata

Ora i reperti tornano alla loro collocazione regionale, a Rieti nella centrale piazza Vittorio Emanuele II, al piano terra di Palazzo Dosi-Delfini, come voluto dalla Fondazione Varrone, che ha sostenuto fortemente il progetto del ritorno del carro nella sua terra d’origine, la Sabina. Progetto reso possibile dalla collaborazione tra il Ministero della Cultura e in particolare dalle Soprintendenze territoriali – la ex SABAP per le province di Frosinone, Latina e Rieti, il cui territorio reatino è ora di competenza della nuova SABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti, – e dal Museo Nazionale Romano, nei cui laboratori si è compiuto il restauro. Come dichiarato dal Presidente, la Fondazione ha voluto l’allestimento nell’ottica di attrarre un pubblico sempre più vasto al godimento delle bellezze del territorio Reatino e Sabino (dopo il periodo di chiusura per la pandemia da Covid-19) con un manufatto di tal eccezionalità e a carattere nazionale, che rappresenti il modo migliore per far ripartire l’economia e la cultura del territorio.

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Pendente in argento a cartiglio mobile

Il ricongiungimento tra i reperti provenienti dalla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen e quelli conservati nel Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina provenienti dalla Tomba XI del sito, sono presentati nella mostra a cura di Alessandro Betori, Francesca Licordari e Paola Refice, con l’allestimento progettato da Daniele Carfagna compositore pure della colonna sonora originale di accompagnamento.

Un percorso che si snoda in tre sale di esposizione, riportano il visitatore indietro nel tempo fino al VII secolo a.C., a scoprire uno spaccato significativo della civiltà sabina attraverso i corredi funerari della stirpe del misterioso e potente principe di Eretum. Il nome Eretum appare nella documentazione storica, come luogo di battaglie fra Sabini e Romani avvenute tra l’età regia e i primi tempi della Repubblica.

La città si trovava in una posizione di frontiera con il territorio latino e è stato individuato sulle colline di Casacotta (Montelibretti), grazie alle indicazioni di scrittori antichi e da ricognizioni archeologiche. Sulle alture circostanti si trovano le Necropoli di cui quella di Colle del Forno, finora si sono scavate 40 tombe a camera ipogea per lo più, che sono dotate solitamente di un breve corridoio di accesso dromos, corredi generalmente modesti con materiali ceramici (olle o brocche di impasto, portaprofumi e pissidi di fattura etrusco-corinzia) o metallici (pugnali a stami, spade, lance, fibule).

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Pendente in oro con paperella

La tomba fu probabilmente luogo di sepoltura di una famiglia di rango eccezionale, che adottò usi funerari divergenti rispetto a quelli emersi dal resto della Necropoli. Gli studi hanno evidenziato come il sepolcro fu costruito e utilizzato dalla prima metà del VII secolo a.C. fino alla romanizzazione (III sec. a.C.) dapprima come luogo per una sepoltura femminile di un personaggio di alto lignaggio vissuto due generazioni prima di quella del principe. Si accede alla sala principale attraverso un corridoio, dove è narrata la storia dello scavo e si può ammirare un’anfora corinzia (anch’essa restituita ma probabilmente non riconducibile al medesimo scavo) decorata a figure barbute e attribuita al Pittore della Sfinge Barbuta, decoro frequente nel VII-VI secolo a.C. in ambito etrusco-italico, riprende il motivo di esseri mostruosi barbuti delle lamine bronzee.

Nelle teche della sala principale incontriamo gli oggetti del corredo dell’individuo maschile, probabilmente incinerato, secondo un modello culturale eroico di stampo omerico teso ad enfatizzare il ruolo duplice di capo politico-militare e religioso della comunità. In mostra alcuni oggetti del corredo personale del principe tra cui il frammento dell’urna cineraria in bronzo decorata a sbalzo con il profilo di un cavallo e di un carro (fattura cerretana come le lamine); il pendente ellittico in argento a cartiglio mobile con castone in ambra arricchito da un cerchio traforato in oro; due oinochai (brocche) in bronzo, un piatto biansato in bronzo e un servizio in ceramica composto da vasellame in impasto rosso, bruno e bucchero.

Gli oggetti del corredo femminile esposti constano di grandi anelli di sospensione (di cui non si conosce l’uso vero e proprio) di provenienza laziale, un vassoio-incensiere di bronzo, i dischi traforati in ferro con intarsi d’ambra di cui uno ricostruito, che riporta all’area aquilana, una patera baccellata in ceramica d’impasto. Alcuni scudi di bronzo quale decoro potrebbero attestarsi all’allestimento della sepoltura femminile come ad altre di generazioni successive.

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Anfora del pittore della sfinge barbuta

L’esposizione prosegue con le famose lamine in bronzo del rivestimento della cassa del calesse a due ruote del principe. Secondo la ricostruzione italiana, infatti, i resti restituiti dal Museo di Copenaghen appartengono a due tipi di carro: uno da passeggio a due ruote (o calesse) e uno di tipo da parata. La fattura delle lamine è attribuita ad artigiani etruschi di Caere (Cerveteri), famosi nella lavorazione del bronzo (se ne individuano almeno cinque mani) decorate a sbalzo con sviluppo verticale a doppio registro in 100 riquadri. In ottantasette di questi si ripete una figura –animale, umana o ibrida- associata ad elementi vegetali, mentre nei restanti tredici troviamo fregi e figure che si susseguono o interagiscono in varie composizioni di scene di caccia con la presenza di un’arma o strumento di divinazione la Makhaira.

La ricostruzione della disposizione delle lamine è stata possibile anche grazie a come sono rivolte le figure che convergono con lo sguardo nella direzione di tiro dei cavalli. Dalle misure delle lamine verticali si ricostruisce un abitacolo alto circa 47 cm, lungo circa 75, la cui larghezza data dalle uniche 4 lamine quadrate è di circa 97 cm.

A questo carro appartengono anche le bardature del capo (protometopidia) e dei pettorali dei cavalli (prosternidia), che per quel tipo di carro dovevano essere più dei muli che non veri e propri purosangue. Completava il corredo del principe, una spada in ferro, una punta di giavellotto (non presenti in mostra) e un elmo di bronzo, che, rifiutato dal museo danese, è stato venduto a Magonza (in Germania).

Nell’ultima sala la ricostruzione dell’altro carro, riuscita grazie all’identificazione dei rivestimenti in lamina bronzea di lunghi mozzi, provvisti di testata in ferro con foro cilindrico per i bracci dell’assale che hanno identificato la tipologia di veicolo. Un carro veloce, a ruote solitamente indipendenti tra loro che servivano per affrontare curve strette e, tirato da tre cavalli, che in questo caso aveva un pianale in assi di legno, anziché le fettucce intrecciate che avevano di solito questi carri per assorbire le scosse sulle strade non lastricate, doveva essere un esemplare da parata. L’allestimento ricostruttivo dei carri ha utilizzato modelli in plexiglass che permettono un eccezionale impatto visivo e una ricostruzione a tutto tondo.

Chiudono l’esposizione alcuni pezzi di tumulazione databili al V sec. a.C. come una piccola olpe in bronzo, due alari in ferro, cinque spiedi in ferro e anche uno skyphos (coppa a due anse) etrusco a figure nere e un utensile in bronzo dalla funzione controversa un “kreagra” o “graffione” riferibile a questa tumulazione o a una più tarda. Infine altre armi databili intorno al IV sec. a.C. che indicano il protrarsi dell’uso da parte della famiglia titolare che continua ad avere comportamenti funerari diversi dal contesto.

L’ingresso è gratuito da martedì a domenica dalle ore 17,00 – 20,00 con prenotazione obbligatoria su eventbrite

 

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