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Le mani sulla cultura (Gremese, Roma, 2008)

IL TEATRO POLITICO NELLA DEMOCRAZIA INCOMPIUTA

Un libro originale di Franco Ricordi
lunedì 1 settembre 2008 di Carlo Vallauri

Argomenti: Franco Ricordi


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Lo studio di Franco Ricordi Le mani sulla cultura (Gremese, Roma, 2008) si pone come un punto fermo nel ritornante dibattito sul “teatro politico e l’egemonia della sinistra nelle arti del XX secolo”, secondo il sottotitolo del libro che si presenta tra l’altro con una bella copertina a tinte incisive.

L’argomento, come è noto, è stato affrontato in passato prevalentemente su un piano polemico (e se ne sono occupati spesso Galli Della Loggia e P.L. Battista). Al di là degli aspetti strettamente politici, l’autore di questa nuova prova saggistica – apprezzato attore, regista e direttore di complessi di prosa – pone in diretta conseguenzialità le tendenze di stampo brechtiano nel teatro europeo, specie nella seconda metà del Novecento, con l’azione sistematica condotta dai gruppi di sinistra per imporre nella società culturale, specificatamente italiana, operazioni teatrali di marcato segno politico, ispirate alla prevalenza delle dottrine e della prassi comuniste, alla quale si sono a lungo accompagnati gran parte dei socialisti.

Dopo aver analizzato, con finezza, nei primi capitoli, i caratteri “politici” del teatro, dall’arte greca a Schiller e fino a Brecht, Ricordi si sofferma sull’ambivalenza del dramma borghese e sulla nascita e la diffusione del teatro “epico”, sulla scia delle opere di Brecht. E, prendendo le mossa da La morte di Danton (ancora suscita in noi emozioni il ricordo della mirabile edizione di Strehler), l’approfondito saggio rileva l’investimento culturale della sinistra italiana, in favore di un teatro ispirato alle idee marxiste – o almeno alle ideologie da esse derivate – abbattendo la visione “neutrale” dell’arte propria della cultura idealista, ma – spiega l’autore – la sua ricerca è diretta a dare un contributo – e questo scopo è certamente raggiunto nelle 180 pagine – alla depoliticizzazione della cultura e del teatro, per sottrarre le arti all’ “aggressione” subita nel secolo scorso. Una cultura, un teatro operativo per “cambiare il mondo”: quanti di noi sono stati assoggettati a tale suggestivo intento? E, pagina dopo pagina, viene qui demistificato l’incessante serie di travisamenti culturali compiuti nel settore delle arti. Dall’impostazione generale al linguaggio il peso di tali tendenze è stato rilevante, ed ancor oggi si avverte in Italia.

In maniera specifica Ricordi si richiama a Pasolini per sottolinearne l’originalità rispetto alla fragilità culturale dei tanti assiomi sostenuti a lungo nell’esperienza italiana e non manca di puntare criticamente il dito in particolare sui canovacci di Dario Fo. Inoltre viene citato positivamente Luigi Squarzina – come regista pur appartenente alla sinistra storica – che ha tuttavia criticato l’istanza “totalizzante” della regia moderna, riflesso ideologico di derivazione hegeliana. La riduzione didascalica di una serie di importanti iniziative teatrali è indicata come una deviazione dal senso del “gusto” nell’accezione kantiana e viatico impresso alla stessa libertà di giudizio. Un teatro – afferma R. – anti-aristotelico che, nella pretesa della “necessità” di cambiare il mondo, degrada l’arte nei contenuti e nel linguaggio. Se la condanna del didascalismo imposto dall’ “egemonia” culturale appare condivisibile (e gli esempi citati sono significativi) sia consentito osservare che quella concezione artistica nacque in una particolare condizione dell’Europa sottoposta al dominio diretto e indiretto del nazismo e quindi rappresentò una risposta, una forma di difesa, un incitamento a non arrendersi e a battersi con ogni mezzo (soprattutto nella cultura) per la sconfitta di quello che era considerato – non a torto – un “male” da sconfiggere a qualsiasi costo. Certo, la società aperta offerta dall’Occidente capitalistico e democratico è apparsa allora come un fattore liberatorio ad una parte rilevante della cultura che in nome di tali principi da contestato quell’ “egemonia” pericolosa per la libertà di tutti gli altri. Ed è in questa cornice che Ricordi si sofferma – dopo sottili osservazioni su una linea convergente con Popper – nell’esperienza della democrazia bloccata nella repubblica italiana, quando – tiene a sottolineare – ne rimase bloccata anche la cultura. E a questo punto ancora una volta appare come un isola di salvamento, l’opera di Pasolini, la cui grandezza è giustamente contrapposta al minimalismo cinematografico di Moretti. Altrettanto valido il richiamo alla cultura liberale che si espresse nella ricerca di una terza via e ne vengono citati i maggiori epigoni, da filosofi come Antoni e Calogero a scrittori come Chiaromonte e Silone, a politici come Parri, oltre all’opera svolta da Bobbio.

Sulle basi di queste analisi, Ricordi sostiene che dopo la liberazione del ’45, va altrettanto esaltata la “seconda liberazione” dal totalitarismo, avvenuta con la caduta del muro di Berlino ed il crollo dell’Urss. Ed i testi teatrali di Pasolini vengono allora indicati singolarmente come espressione di una ricerca soggettiva contrapposta alla cultura di massa e mediatica. Da un breve accenno si può cogliere altresì l’interpretazione che l’autore dà del berlusconismo, visto quasi come la conseguenza italiana di un fenomeno derivato a livello internazionale dal dominio della TV. L’attenzione all’esame testuale delle tragedie pasoliniane conferma le specifiche doti critiche di Ricordi, il quale usa sapientemente il linguaggio preferito dal poeta per dimostrarne la possente forza lirica. Vi sarebbero tante altre osservazioni da fare attorno a tante altre pagine del libro, fascinoso nelle sue costruzioni estetiche.

Una osservazione di fondo non possiamo tralasciare: a noi personalmente – per quel che abbiamo vissuto e visto – sembrano in vari tratti piuttosto forzate alcune pur interessanti considerazioni di Ricordi. Infatti, contro la tendenziosità e faziosità della cultura – esattamente rilevata e duramente giudicata – nell’esperienza del secondo Novecento, nel teatro italiano non va dimenticata la presenza di autori, espressione della cultura di sinistra o ancor meglio della cultura senza aggettivi (quella che preferiamo nella sua autenticità). Sono opere apparse sulle nostre scene (purtroppo, qualche volta, solo nei premi) rivelatrici tutt’altro che di un cedimento “politico”, estetico, morale, o di conformismo. Non quindi un universo chiuso quanto invece una dialettica ininterrotta – nella cornice delle nostra libertà costituzionali – alla quale hanno contribuito con creatività e gusto artisti liberi ed indipendenti. Piuttosto potrebbe essere meritoria una ricostruzione dei metodi perniciosi messi in atto, per tanti anni, dalle istituzioni preposte alla regolamentazione dello spettacolo, un settore a lungo controllato dal partito di maggioranza e dai suoi alleati (ne abbiamo scritto anche nella World Encyclopedia of Contemporary Theatre).

Non può in ogni caso mancare il riconoscimento a Ricordi per aver egli esposto con chiarezza e conoscenza aspetti significativi e discutibili a lungo taciuti nella nostra cultura. La pressione politica sulle arti è stata esercitata perché prevalenti erano, sul pianto quantitativo, artisti appartenenti alle correnti che l’autore del libro mostra di deprecare e che certamente si sono avvalsi di condizioni di favore derivanti dalla cosiddetta egemonia culturale, che aveva luogo perché ad essa, in verità, molto poco si sapeva opporre sul piano creativo e su quello organizzativo. Ma, al di là dell’ “egemonia”, restano le opere più valide, indipendentemente dalla collocazione politica degli autori: sono esperienze che non possono essere confuse in una critica che rischia altrimenti di rimanere generica.