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Rita di Ponte Vecchio


giovedì 10 maggio 2007 di Arturo Capasso



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Sculettava per Ponte Vecchio. I soliti jeans da chi mi ama mi segua, una vera provocazione. Andava per i fatti suoi, con la lunga chioma nera increspata dal vento leggero. Attraversò tutto il ponte, si fermò sulla sinistra all’ingresso dello snack bar, salutò qualcuno ed entrò. Si fermò alla cassa, prese una bevanda.

Proseguii, mi fermai, tornai indietro. Lo snack aveva anche un ingresso laterale, con una cabina telefonica. Entrai e chiamai la tipografia. Le bozze della Scena Illustrata erano pronte sul tavolo ed attendevano la mia correzione. Uscii. Lei s’incamminò sculettando per il Ponte Vecchio.

La giornata era buona, un sole tiepido riscaldava i passanti non del tutto intabarrati, molti erano turisti anglossassoni. Poco prima sul Lungarno avevo notato le solite arzille vecchiette ben curate, passare da un negozio all’altro per un ipotetico acquisto.

La fermai. Dissi:
- Ma io l’ho già vista da qualche parte. E lei: dove? Vediamo un po’, forse a Milano, verso Brera, un paio di mesi fa.
- Guardi che io a Milano non ci sono mai stata. Cosa fa a Firenze?
- Sono giornalista, vengo qui per seguire una rivista.
- Ah, allora può lanciarmi.
- Con piacere. Ma cosa fa?
- Dipingo
- Che genere?
- Surrealismo
- Come ti chiami?
- Rita.
- Da dove vieni?
- Dalla Sicilia.
- Rita, vuoi venire a colazione con me?
- Beh, sarei tentata, perché non ho soldi, ma non vorrei essere condizionata.
- Parliamo un po’, vuoi?
- Va bene.
- Adesso ti mostro un fascicolo della rivista.
- Sì, è molto bella, ma non voglio apparire su una pubblicazione borghese.
- Come sarebbe a dire?

- Vedi, io sono fuori del sistema. Mi piace tutto quello che è fuori.
- E con gli altri? Non ti trovi bene? Rifiuti tutto?
- Voglio essere libera, mi piace essere libera, sto bene solo con i miei amici.
- Quanti anni hai?
- Ventuno.
- E non accetti nulla del mondo tradizionale?
- Nulla, preferisco starmene fuori
- Non ti piacerebbe, per esempio, vedere le foto dei tuoi quadri sulla rivista?

- No, io dipingo per me e degli altri me ne frego. E poi non voglio farmi pubblicità.

E’ strano, prima aveva detto che sarebbe stata lieta di essere lanciata. Ci fermiamo. Il sole è sempre pallido, ma piacevole.

Sotto scorre l’Arno con la sua massa sporca. Le offro una caramella polo. Non la mangia, la tagliuzza e la lancia ai piccioni.

Ne vorrebbe prendere uno.

- Come passi la giornata?
- Studio all’Accademia di Belle Arti.
- Sei fuggita di casa?
- No, sono qui dall’estate. Il posto mi è piaciuto e sono rimasta.

- Come passi la giornata?
- Così, come viene. Non so dove starò fra un’ora o un mese. Come viene me la prendo.

- Allora vuoi venire a mangiare con me?
- Sarei tentata, perché non ho soldi. Ma non voglio essere condizionata.

- Vedi, così dicendo dimostri che non sei poi tanto libera, come sostieni. Ti senti libera solo nel tuo guscio, nel tuo mondo.
- Sì, ma mi ci trovo bene.

Ci avviamo verso il Lungarno. Incontra un altro ragazzo, grassoccio, capellone. Io allungo il passo e mi fermo a sbirciare le vetrine scintillanti di bracciali, collane, amuleti..

Rita si avvicina e mi dice: guarda, ho avuto dall’amico duemila lire. Per oggi posso mangiare e non voglio accettare il tuo invito. Però mi ha fatto piacere averti conosciuto. Ogni quanto capiti a Firenze?

- Beh, un paio di volte al mese.
- Allora vieni qui, io sto sempre al Ponte Vecchio. E chissà che non mi decida a far pubblicare i miei disegni.

E così rimango fra me e me, lei se ne va per i fatti suoi.

L’inizio del dialogo era stato difficile. Ti trovi con un volo di anni ed un abisso di ideologia. Un abisso che sembra incolmabile. Per lei l’unica cosa valida è la pittura; il resto non conta niente, la poesia è pura masturbazione

Ventuno anni, quasi la metà dei miei. Alla sua età venivo a Firenze ad accompagnare i gruppi di studenti stranieri durante le vacanze di Pasqua e Natale. Si faceva il tour delle villes d’art partendo da Napoli e proseguendo per Roma, Firenze, Venezia.

Cosa è successo? La città allora mi sembrava più allegra, con lo scampanellio delle migliaia di biciclette, che poi avrei trovato a Pechino; lo sguardo della gente era aperto, sereno. Persino i Palazzi avevano un aspetto diverso.

La città è vecchia di secoli, ma gli ultimi due decenni hanno accelerato un processo di deterioramento. Un carosello continuo impazzito di auto, autobus, moto, mezzi pesanti. Un traffico che rappresenta un vero attentato a queste strade, a queste mura, a questi palazzi pregni di storia. Ma non se ne accorgono. Nessuno se ne accorge. Quando si muore piano piano, nessuno se ne accorge.

Chi viene da fuori e torna dopo qualche anno, trova che tutto è andato peggiorando. Sono tornato altre due volte a Ponte Vecchio e Rita non l’ho trovata. Era di pomeriggio: il traffico molto fitto, come al solito.

A sera tardi s’incontrava solo qualche capellone a chiacchierare in gruppo e qualche donna avanti negli anni che all’angolo di una strada stretta cercava di convincere il cliente indeciso a salire su da lei per un po’ di evasione.

Una città solitaria, senza vita. Le luci che si riflettevano sull’Arno non suscitavano alcuna emozione, i vecchi palazzi erano quasi assaliti da cumuli di immondizia.

Cosa era successo?

Ed io ero lì, a meditare, a passeggiare fra il nulla e il deserto, fra l’inutile e il vago.