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Un caro professore


mercoledì 2 maggio 2007 di Arturo Capasso



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Va bene, posso anche essere d’accordo; subito dopo la guerra non c’era tanto ben di Dio come adesso. La gente non poteva vestirsi in modo accurato, ricercato. Ma il mio professore- Alberto Unno - vestiva proprio maluccio. Un giubbotto di panno militare e subito sotto una maglia grigia pesante. Solo raramente ci frapponeva una camicia, pure militare.

Quando scendevamo a fare ginnastica, d’estate o d’inverno, il suo abbigliamento era sempre lo stesso. Grande fu la sua gioia per due camicie di seta. Aprì con impeto la tabacchiera e fiutò con soddisfazione un pizzico più grande, come se avesse voluto festeggiare a modo suo il gradito pensiero natalizio.

Era cordiale, ma severo come un buon padre. Non che desse molta importanza alla ginnastica; insegnava anche, in un’altra sezione, latino ed italiano. Fu mio insegnante per tre anni, quelli delle medie. L’istituto era dei gesuiti, la scuola privata accoglieva chi poteva pagare un canone alto, come del resto succede adesso.

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Scolaresca

Pensavo che il mio professore guadagnasse bene, che forse quel giubbotto grigio verde fosse una specie di fissazione. Un pomeriggio andai a fargli visita, perché era malato. Salii delle scale strette di un grosso edificio a ridosso della scuola. Mi aprì una signora non più giovane, con un camice largo e trasandato.

Una piccola sala d’ingresso piena di cappotti di varie taglie, di scarpe e stivaletti. Solo molti anni dopo - a Mosca - avrei visto tante cose in un piccolo ingresso. Quando fa freddo si lasciano, appena entrati, le scarpe pesanti e se ne calzano altre più leggere.

Un’altra stanza con un tavolo tondo al centro e due credenze larghe, ma quasi attaccate al tavolo. Quelle suppellettili sembravano sproporzionate all’ ambiente così piccolo. Ma le sorprese non erano ancora finite. Entrai nella camera dove riposava il caro ammalato.

Il letto. Mai visto tanta accozzaglia che, in un certo modo, era anche ingegnosa. Infatti il mio professore, che mi ricevette con la sola maglia ed era seduto con un paio di guanciali dietro le spalle, aveva sistemato il letto matrimoniale al centro e ai lati aveva messo due lettini a due piani.

Aveva sei figli; due dormivano coi genitori e quattro ai lati. Mi disse che in tal modo non c’era neppure il pericolo che i più piccoli cadessero e si facessero male: sarebbero andati a finire sul letto grande.

Com’è possibile - pensai - che il mio caro professore debba vivere in questa specie di topaia?

Mi sentii male, cominciavo a rendermi conto dell’ineguaglianza, della vita diversa di ciascuno di noi. Mi portai dentro quelle immagini per anni, senza dirlo ad alcuno. Possibile che un uomo spendesse tutta la sua vita ad educare dei ragazzi e fosse costretto a vivere in tali umilianti ristrettezze?

Passarono degli anni, cambiai scuola.

Accanto a me sedeva non più il figlio del medico di padre Geremia, il rettore dell’istituto che ogni tanto lo mandava a chiamare e lo coccolava. Al banco di dietro non sedeva il figlio del grosso gioielliere e davanti il nipote del famoso direttore di una clinica psichiatrica. E non c’era neppure il rampollo del redattore capo d’un quotidiano. Valeva quattro, come punto più alto. Ma fu promosso con gli esami di giugno. Io presi di più, molto di più, ma toccai con mano quella forma d’ingiustizia. Ingiustizia avallata , anzi fatta dai padri gesuiti.

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Omaggio a Edoardo De Filippo
Olio su tela di Franco Brighenti

Niente di tutto questo. Al mio fianco c’era un ragazzo d’un paese lontano. S’alzava alle cinque, camminava un paio di chilometri e prendeva il treno; camminava ancora e finalmente arrivava a scuola. Perciò dormiva, quando c’era spiegazione, ma aveva molta volontà e cercava d’impegnarsi. .

Una mattina - di domenica - venne a casa mia il professor Alberto Unno con uno dei suoi figli. Era magro, molto magro. Mi disse avvilito che purtroppo era senza soldi. Senza una lira, con molti debiti. Non sapeva da chi andare e perciò aveva pensato a me.

Rimasi mortificato. Mi sentii preso da una vergogna senza fine. Mi rendevo conto sempre di più che la nostra società rendeva possibili tali situazioni, tristi e paradossali.

Mi alzai, presi la chiave d’un cassetto dove avevo riposto i miei risparmi. Era per me semplicemente doveroso aiutare il mio ex professore. Ex, e perché, poi? Lui ancora una volta mi stava insegnando qualcosa. Ed io, come ai vecchi tempi, gli ero riconoscente.

Quanti anni ancora sarebbero passati: anni pieni, vuoti, di grandi speranze, di cocenti delusioni, di amarezze profonde.

Caro professore, quanti temi avremmo potuto svolgere sui casi della vita... Vi ricordo come allora: con stima ed affetto.