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Il treno per Zagabria


mercoledì 4 aprile 2007 di Arturo Capasso



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Salimmo sul treno con anticipo; la sera prima avevamo visto troppa gente affollarsi per l’acquisto dei biglietti, intorno ai chioschi di bevande e nei vecchi vagoni. Il treno per Zagabria sarebbe partito dopo un’ora, ma i numerosi scompartimenti di seconda classe erano già pieni e quelli di prima si andavano riempiendo rapidamente.

C’erano dei gruppi di giovani occidentali, coi capelli lunghi e grossi zaini sulle spalle. Gli slavi li guardavano con curiosità; da queste parti non si era ancora imposta la nuova moda con le sue impennate di convergenza sessuale. Sedemmo in uno scompartimento di centro, dove avevano preso posto due giovani, fratello e sorella. Fummo attratti dai loro abiti ben portati e dai loro volti sereni ed intelligenti. Venivano da Londra e proseguivano per Budapest. Erano in possesso di passaporto britannico, pur essendo nati in Ungheria, lasciata nel ’57, un anno dopo la sanguinosa rivoluzione. Si formarono alla cultura occidentale, integrando lo studio delle lingue con visite periodiche in Francia, Germania, Svizzera e Nord Europa. Ora tornavano nel Paese natio per abbracciare i nonni che li attendevano ansiosi.

Così il viaggio si prospettava interessante.

Lasciammo la città, ci veniva incontro un paesaggio con larghe distese di verde e piccoli agglomerati di villaggi agricoli. E poi un mare terso, ricco di insenature e con insediamenti di camping. Saremmo stati a discorrere noi cinque e perciò non vedemmo di buon occhio il viaggiatore grosso e grasso che prese posto accanto a me. Indossava un vestito grigio chiaro con una camicia di cotone a quadri larghi.

Non ricordo come fosse cominciata la conversazione col nuovo venuto, ma ad un certo momento scivolò sulla situazione economica. Introdusse la mano nella tasca interna della giacca e mostrò un grosso rotolo di banconote da cinquemila dinari, accartocciati in un giornale. Raccontò con un pizzico di orgoglio che aveva tre piccole imprese con una quindicina di operai e che i suoi guadagni erano notevoli. Disse:
- Adesso voglio cambiare l’auto, lascerò l’Opel e prenderò una Mercedes.

- Ma allora lei vive agiatamente...

- Sì, non mi posso lamentare. Qui chi lavora bene può fare soldi.

- Ma è un miscuglio di revisionismo, capitalismo e socialismo!

- Veda, da molti anni ci siamo staccati dall’Urss, non ne vogliamo sapere del loro collettivismo, occorre pianificare ed occorre giustizia. Per l’uomo ci vuole una spinta, una molla economica. Vede questi soldi? Sono frutto del mio lavoro.

Mostrando di nuovo il pacco di soldi, sistemò un caricatore e noi provammo un certo sussulto. Sotto la camicia, infatti, aveva una grossa pistola di fabbricazione tedesca.

- Come mai va in giro con questo aggeggio?

- Abito fuori mano; di notte può sempre capitare che qualcuno mi salti addosso. Tempo fa ci provarono in due, ma io sparai e li misi in fuga.

Disse che durante la guerra aveva fatto il partigiano. Era stato impegnato in lunghe notti di guardia e in agguati estenuanti. Si potrebbe dire che i suoi tratti somatici rimandavano a un Tito giovane. La figura era robusta, lo sguardo severo. Ma dietro a quello sguardo compariva di tanto in tanto il suo vero animo. Era una persona buona e si apriva a un sorriso largo, sincero.

- Veda, noi stiamo bene, in Jugoslavia, e non c’è bisogno di opposizione politica. Gilas faceva il dissidente e Tito l’ha tolto di mezzo. Rankovic voleva alzare troppo la testa e anche lui fu messo da parte. Una direzione unica va bene; troppa gente a discutere fa perdere tempo e non si raggiunge alcun risultato. Noi ora stiamo costruendo una nuova società e l’attenzione di molti Paesi è rivolta alla nostra realtà.

Gli feci rilevare che occorre una opposizione, che un organo di stampa deve avere la sua autonomia di giudizio, anche se in contrasto con l’organo di partito. Non era d’accordo; anzi, in tutta franchezza non si era mai posto il problema dell’esigenza di più partiti o più organi di stampa. La conversazione prese un tono più familiare, con lo scambio di indirizzi e la promessa di scambiarci visita.

Il treno si fermò in una piccola stazione, giusto il tempo per acquistare delle salsicce affumicate dal gusto gradevole.

Come ho detto, traspariva al di là dell’arcigno volto di partigiano un animo buono, un padre di famiglia: aveva infatti sei figli. Ma il suo capolavoro - un gesto assolutamente inatteso - il partigiano lo compì all’arrivo a Zagabria.

I due giovani che proseguivano per Budapest rimasero in treno. Io scesi con mia moglie e l’amico Mario. Lui ci pregò di attenderlo fuori. Imboccò velocemente la strada e scomparve ai nostri occhi. Ci avviammo all’uscita; c’era la solita folla tumultuosa. Vociare continuo di donne anziane con grossi sacchi. Un mondo in movimento, fra città e campagna.

All’uscita ci raggiunse il partigiano, che credeva fossimo andati via. Si presentò con un pacco: due scatole di cioccolatini. Era un omaggio che non ci aspettavamo e che ci commosse.

Andammo allora al binario 5, dove sostava ancora il treno lasciato da poco. Volevamo offrire una delle scatole ai ragazzi ungheresi e metterli al corrente del simpatico gesto del nostro partigiano. La sorpresa fu ancora più grande, perché egli aveva offerto anche alla giovane ungherese due scatole di cioccolatini.

Tutti insieme pensammo a quel partigiano che, quando era entrato nello scompartimento, appariva un intruso, ma che invece ci aveva fatto trascorrere tre ore di cor dialità. Il gesto finale, poi, era stato il suo suggello.

 

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