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Una bella ragazza svedese


venerdì 16 febbraio 2007 di Arturo Capasso



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Barbara. La conobbi nel ’58. Sono passati, gli anni. Ero sul numero 3, il tram che mi portava nei pressi dell’ Haga-parken, dove abitavo.

Lei proseguiva. Aveva intorno al capo un largo fazzoletto , come allora era di moda.

Le chiesi, sempre in tram, un appuntamento per la sera e mi disse di sì. Ci saremmo incontrati a Odenplan alle venti.

Percorrevo quella strada almeno due volte al giorno, perché lavoravo nel ristorante “Tre remmare”, molto elegante, al centro di Stoccolma. I turni erano dalle otto alle sedici e dalle sedici a mezzanotte.

Fu, quella, un’esperienza importante. Ero adibito a lavare le pentole, dei gamelloni grossi e grassi. Il mio capo, uno chef tedesco, voleva che le pentole stessero tutte luccicanti e ben lavate, in ordine crescente, sulla mensola del retro cucina, dove appunto stava il lavabo.

Al mattino non c’era da lavare pentole, perché il ristorante entrava in funzione verso le tredici, ma c’erano sempre cassette di sgombri da asciugare e tagliare in due, polli da pulire, tacchini da sezionare. Tutta roba nuova per me. A casa mia avevo visto tagliare la gola a un pollastrello ed avevo assistito alla relativa pulizia dopo la bollitura.

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Stoccolma Skyline

Arrivavano soprattutto in periodo natalizio, a Pasqua e all’onomastico di mio padre. Un amico di famiglia ne portava almeno tre, legate col filo di spago, a capo in giù. Ricordo che la sorte di quelle povere galline mi aveva indotto a scrivere una specie di storiella, in cui si parlava del padrone e dei poveri animali, sfruttati prima e sacrificati dopo.

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Gotland

Il lavoro che svolgevo era considerato pesante. Infatti, c’era una paga extra. Tutto sommato mi piaceva quella vita, anche se la pulizia delle patate era particolarmente laboriosa, trattandosi di pelare a macchina quintali di palle oblunghe, lavarle e passarle al sezionamento in apposita macchina

Patate, ma cos’era, una persecuzione? Un paio d’anni prima ero stato su una “carretta” che trasportava appunto patate; allora annotai:

Siamo ripartiti da Colombo con 280 tonnellate di patate marce da buttare in mare. 180 tonnellate erano in coperta, il resto nelle stive 2 e 3. La notte scorsa s’è lavorato per eliminare il carico di coperta, ora resta quello delle stive. E’ stato svolto un lavoro snervante, non tanto per la forza richiesta, ma per il puzzo terribile e nauseante emanato da quelle patate fradice.

Ho cercato di proteggermi con un fazzoletto, ma è stato inutile. Sarebbe stato indispensabile adoperare delle mascherine. A Colombo le autorità sanitarie avevano bloccato lo scarico. L’operazione s’è protratta per tutta la notte. Era cominciata ieri sera alle ventuno ed è finita stamani alle sei .Tutto l’equipaggio di coperta e di macchina, ha dovuto portare il proprio contributo. E così lavoravano il cuoco e il cameriere, il primo ufficiale e il direttore di macchina, che ad un certo momento ha preso un ruzzolone su delle ceste di patate. Chi andava a mettersi in cuccetta perché non ce la faceva - o non voleva farcela - era richiamato e costretto a lavorare. Alcuni si sentivano veramente stanchi, perché non c’era stato alcun turno di riposo.

Il puzzo era sempre forte, penetrante.

Livio, per aver riferito ad un compagno ciò che gli aveva detto il primo ufficiale, fu preso a parolacce dal secondo ufficiale, che così terminò il suo intervento: “ Sputa sangue, adesso ti getto a mare”. Mi trovavo nella cabina di comando e l’ufficiale fu redarguito. Livio mi confessò che gli faceva male la schiena per la stanchezza e che non si era messo a piangere solo per orgoglio.. Molti cercavano di rallentare il passo, altri lavoravano come automi. Era una lotta dura contro quelle patate marce: gettarle in mare e levarsele di torno, il più presto possibile.

A Stoccolma i miei compagni di lavoro erano per lo più finlandesi. Lavoravano con scrupolo ed uno di loro, grosso e giovane, faceva doppio turno. Diceva che voleva met¬ter da parte un pò di soldi, tornare a casa ed aprire un negozietto.

Il nostro era un lavoro umile, duro, per gente che arrancava, che era lì di passaggio, o almeno così sperava. C’era poi un’altra incombenza: pulire i cessi del personale addetto alla cucina e ai tavoli. I camerieri si davano più arie: in tutta quella fanteria rappresentavano un’arma a cavallo e ci tene¬vano a debita distanza, manco ci guardavano.

Feci amicizia con una finlandese, che poi passai ad un aiutante cuoco di Cagliari, e con una cuoca, italiana. Era lei che mi conservava sempre piatti di cannelloni rimasti la sera precedente. Era lei che mi dava qualcosa da portare a casa, coi dovuti permessi.

Ho dimenticato il suo nome, ma la ricordo con tanta simpatia.

Alle venti trovai Barbara a Odenplan. In un linguaggio che stava fra le mie poche parole di svedese e le sue poche d’inglese decidemmo di andare a cinema. Prima entrammo in una caffetteria e salimmo le scale per accedere alla sala del piano superiore Era piena di giovani e di fumo. Sedemmo, sorbimmo quel magni¬fico caffè a tazza grande piena, con pasticcini.

Dopo poco, decidemmo di andare via. Dissi che avrei voluto pagare io. Lei diede intorno uno sguardo rapido, si alzò ed io la seguii. Pensavo che volesse pagare giù alla cassa. Invece ce la squagliammo. Ma fu lei, lo giuro. Ed io provai un certo piacere: anche da queste parti ogni tanto si andava contro regola.

Il film non lo ricordo. Ma so soltanto che le presi la mano, l’adagiai sulle mie cosce e vi posai sopra l’impermeabile. Barbara ci stava. Anzi manovrò abile e disinvolta. Pensai: ho fatto la prima conquista in Svezia . Andammo a passeggiare in un parco e cominciai a baciarla. Gli occhi celesti, le labbra pastose, un seno come allora piaceva a me: abbondante. Stemmo a lungo sulla panchina. Ma all’indomani m’attendeva il ristorante, dovevo stare in piedi presto. Lei si dimenava alle mie carezze, soprattutto quando le presi i bei seni e li feci girare in modo convulso. Le chiesi dove potevo trovarla; mi rispose: “ al Karolinska.”

Infatti, lavorava in quell’ospedale.

E così fu. Dopo qualche giorno andai in quel gros¬so complesso di palazzi e viali e giardini che non stava lontano dalla mia casa. Mia per modo di dire. Occupavo una piccola stanza, dove c’erano un letto e un tavolo con lume. Mi trovavo bene. Avevo sistemato i vari libri e dizionari che mi servivano per portare a termine lo studio sulla situazione operaia in Svezia.

L’annuario statistico era il più consultato, perché preferivo avere cifre di prima mano, senza troppe interpretazioni. Quei nomi erano infernali. Passavo intere domeniche a decifrarli e a tradurli. Volevo fare una ricerca efficace, dire finalmente qualcosa di valido.

La famiglia che mi ospitava era composta dal Maggiore Ankarkrona e Signora. Erano in quella villetta da anni. Una costruzione storica, perché vi aveva vissuto un re di Svezia, lo stesso che muore assassinato in un’opera di Verdi. Il parco era stupendo, tutto coperto di neve e con al centro un laghetto. Vi feci un giro con un «quattro». Così si chiama l’imbarcazione di canottaggio, dove i canottieri sono appunto quattro. Uno di loro portava già la fede al dito. Studiava medicina, primo anno. Gli chiesi come faceva a vivere.

Mi rispose che sua moglie lavorava. Aveva le idee ben chiare: appena laureato si sarebbe divorziato.

Con la famiglia Ankarkrona intrecciai una cordiale amicizia. Non pagavo l’alloggio, ma avevo l’incombenza - come mi era stato detto all’Associazione studenti, allorché il mio sguardo si era posato su quella offerta - di curare la stufa: cioè dovevo uscire fuori, entrare nello stanzino a dritta e mettere carbone per alimentare quella vecchia dispettosa. A volte a sera non ce la facevo proprio e m’andavo a ficcare nel letto. Al mattino, puntualmente, la trovavo spenta e dovevo rimetterla in funzione.

Case intorno non ce n’erano. Solo una con dei contadini . Gente semplice, riservata. Gli Ankarkrona per un certo tempo andarono a svernare nell’isola di Gotland, dove faceva meno freddo e mi lasciarono in consegna la casa. Tenevo tutto ben chiuso, aprivo per lasciar passare l’aria. Entrai nel salotto solo un paio di volte, quando non ne potevo fare a meno. Avevo cioè una ospite.

La prima l’avevo conosciuta durante un seminario di studi svoltosi tempo addietro. La seconda era invece una tedesca, incontrata un sabato sera mentre ascol¬tavo. in una piccola chiesa gotica, un magnifico concerto di musica per organo. Aveva un carattere molto diffi¬cile, ma era di particolare intelligenza. Le sue lettere, quando tornai in Italia e mi scriveva, raggiungevano anche le otto facciate. Tutte frammiste a problemi di filosofia, politica, amore.

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Karolinska

Andai al Karolinska in cerca di Barbara. Ma cosa era: una città. E che nitore, che organizzazione. La tro¬vai con un camice azzurro e una cuffietta bianca, stava manipolando intorno a un carrello con boccette, bende e forbici. La mia infermiera era magnifica. L’avrei subito stesa su un letto vicino. Una donna vestita da infermiera ha sempre un fascino maggiore. Combi¬nammo per la sera, sarebbe venuta da me.

Preparai nella cucina del liquore e qualcosa da mangiare. Faceva un freddo cane e lei indossava solo un giaccone, non molto pesante. Ci sedemmo in cucina, allora col salotto non avevo ancora confidenza. Volle soltanto del caffè.

Dopo pochi minuti eccoci pronti, si poteva uscire, andare a cinema. Cominciai ad accarezzarla, a toccarla, a sentirla muovere con sincronia ad ogni mio passaggio. Andammo nella mia camera. Le tolsi il pullover e sotto rimase il reggiseno. Poi la gonna, le calze. Finalmente potevo vedere quei due bei seni, li presi con ambedue le mani, mi ci affondai col capo, baciai.

Via tutto, nudi alla meta. Avevo poggiato il lume a terra, con un panno intorno.

L’effetto era buono. Il giorno dopo scrissi una pagina su quella che era stata la mia prima, completa esperienza d’amore e di sesso. Non ne ero tanto entusiasta. Ricordo che, scrivendo di Barbara con le gambe aperte, annotai: anch’io finalmente ero stato lì dentro, in quel posto così importante, la mèta di tanti amanti, da sempre.

Barbara era magnifica. Tutta calda, un rossore al¬le guance, i capelli lunghi.

Ci rivedemmo ancora.

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Kiruna

Sempre in dolci convegni. Anche quando tornai da un giro al Nord della Svezia. Ormai avevo lasciato il ristorante, poteva bastare. M’ero spinto con un gruppo di Slavi fino a Kiruna, oltre il Circolo Polare Artico, con trenta gradi sotto zero. Il giorno a momenti non esisteva. Un po’ di luce appariva verso le undici e alle quattordici era già buio. Visitammo le famose miniere Luossavara, e poi a Gallivare

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Luossavara

un complesso siderurgico. Sempre neve, altissima. Il paesaggio era stupendo. Fitti boschi di betulle, renne che trainavano i piccoli, simpatici lapponi.

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Sundsvall

Visitai i cantieri dove si costruivano case monofamiliari per lavoratori, fornite di ogni ben di Dio Trovai estremamente interessante il museo di Sundsvall, dove era rappresentata la vita di secoli addietro e il progresso continuo, instancabile di quelle genti.

Tutto un mondo nuovo, per me che venivo dal Mediterraneo.

Un mondo che ormai mi porto nella memoria.

Quelle immagini si fanno a volte più sbiadite, ma a volte saltano nitide, così belle e care, come il bianco della neve e la gente che conobbi.

Dolci immagini, come Barbara che non ho più rivisto. Bisogna proprio tornare un giorno in Svezia, alla ricerca non di un tempo perduto, perché nulla si perde. O forse mi sbaglio. Proprio il tempo è perduto, andato via per sempre.

Con la sua giovinezza e i suoi palpiti.

 

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