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Metamorfosi di un artista

Americo Ciani
sabato 16 aprile 2005 di Francesca Romana Cicero

Argomenti: Arte, artisti


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La pittura di Mons. Americo Ciani, come tutta l’arte bella, è vivificata da gusto, immaginazione, intelletto e anima. Sogno e impegno, umanità e trascendenza, si fondono, intrecciano e accavallano senza sosta nel rincorrere idee, sentimenti e oggetti tratti dal cosiddetto mondo reale per proiettarli o trasfigurarli nel mondo colorato e multiforme della sua fantasia, instancabile nel ritagliare dal libro della vita dettagli, volti, impressioni o sensazioni e dar loro nuova espressione. Le sue opere, anche se autonome le une dalle altre (salvo qualche eccezione), sembrano essere state plasmate e modellate per continuare a riversare nel mondo una vitalità, ora potente ora sottile, ora coinvolgente ora discreta, che è già in tutte le cose, ma che aspetta solo di essere scoperta e rivelata, ora con i pastelli o i colori ad olio, ora con la china o i pennarelli, perché tutti possano contemplarla e goderne. E Mons. Ciani senza ingannarne l’intima essenza, si accosta e gioca con le sue creature, mescolandone esistenza, anche se costituita da pura sembianza, visibilità e contatto con il mondo, il mondo della vita, sua e di tutto l’uomo. Paesaggi, scorci della natìa Bellegra, animali (in genere cavalli, splendidi per l’umanità dello sguardo e per la lucentezza del pelo color miele), rendono visibili e sensibili idee e sentimenti invisibili e pur tuttavia afferrabili ed imprimibili nell’occhio e nel cuore una, cento, e mille volte, tante quante lo sguardo torna a posarsi su di esse. Unici i ritratti dei suoi genitori, dai lineamenti e contorni che tradiscono la dolcezza del temperamento dei soggetti e di chi li ha rappresentati, e con essi tutta quella straordinaria galleria di personaggi, perlopiù maschili, la cui espressività continua ad espandersi all’infinito, esprimendo proprio tutto ciò che avremmo voluto trovare in essi: da zi’ Gigetto dallo sguardo onesto e birichino con un sorriso appena accennato ma accattivante per le rughe che simpaticamente gli solcano il viso e ne delineano la forma della bocca, al Vecchio barbone di cui una fotografia non avrebbe saputo cogliere con altrettanta intensità lo stupore interrogativo degli occhi, che contrasta col candore della folta barba bianca, come di chi ignorava d’essere osservato; dal giovane Guerrino dal mento prominente e dalla morbidezza delle linee e dei colori, al Povero nei cui occhi brilla una luce istrionesca, sorniona, accentuata dall’orecchio scoperto, teso a captare voci che lo riguardano e che non dicono; dall’italo-americano Tony Tuozzo sicuro di sé nella franchezza del gesto e del tratto, alla semplicità disarmante di Filippo; e a tante altre figure col cappello (motivo ricorrente), fino ad arrivare a quella che più incanta per la statuarietà della posa ottocentesca, ma soprattutto per l’incantevole malìa tzigana degli occhi color nocciola: la zingara, anch’essa col capo velato e le labbra dischiuse, che sembra possedere, al pari di una sibilla, il segreto di verità non rivelate. L’impressione che deriva da tanta umanità bella raffigurata è più che una riflessione, un ringraziamento e una speranza, un’invocazione del cuore, di wagneriana memoria, “facciamo entrare nella vita l’opera d’arte”, perché essa possa dal di dentro illuminarla, nutrirla, afferrarla con le ali della fantasia e della tecnica, se non comprenderla, viverla e amarla di più. Slancio del cuore che nasce anche quando l’arte di Mons. Ciani abbandona le forme consuete, la forma vera e propria, per farsi frammento simile al frattale, lampo, intuizione pura, che schizza, si compone, ricompone e scompone in infinite varietà di figure geometriche o allungate, che ruotano ed ondeggiano, eseguendo in uno spazio, che sembra non conoscere i limiti del foglio o del tempo, una sorta di danza di colori. Danza nella quale l’istinto, la pulsione, l’inconscio, superano i canoni classici della bellezza, tradizionalmente intesa, della proporzione e armonia, per esprimere una tensione asimmetrica nuova, trascendentale, attraverso involuzioni ed evoluzioni di linee che non determinano, ma suggeriscono, che non delimitano ma liberano, che non raffigurano immagini nette dai contorni precisi o simboli dal sapore antico, ma che alludono, rivelano, e osano trasgredire il monito scolpito sul tempio dell’oracolo di Delfi “Osserva il limite”. Linee mosse unicamente dal desiderio spasmodico, irrefrenabile di tendere verso il non-limite, verso l’Infinito. E’ un’arte nella quale il divenire delle linee e del colore rimanda all’Eterno, sia quando assume l’esplosione gioiosa delle forme de L’albero della vita, sia quando si diletta nelle delicate farfalle della Libertà; sia quando indugia nella sofferenza pacata e placata de Il pentimento o in quella inquieta de La prova, dell’umanità capovolta, impiccata all’albero della superbia, rea di aver calcato la via proibita che conduce alla morte; o quando si diletta nelle labirintiche fasce cromatiche che si ricongiungono nell’Ictùs, nell’Eucarestia, che assume anche le armoniose fattezze e coincidenze di mistero, umanità e verità nel Volto dei volti. Sperimentazione, moti dell’animo, che rimandano ad una sorprendente sensibilità interiore che gareggia, senza sosta e a colpi di pennello, con la ragione, di cui in realtà è brillante ed inconsapevole strumento. Non meno di quando Mons. Ciani si appresta a dare corpo in forme non autoritarie o autoritaristiche ad una grandezza che è uguale solo a se stessa, soprasensibile, scegliendo la tenerezza di due occhi intensi e penetranti, il candore di una veste rivelatrice d’innocenza (l’innocenza di chi ama), le delicate movenze di chi guida l’uomo, senza imporre ma con amore, nella comprensione della Verità fino al cuore di essa, da cui due raggi di luce traggono origine e forza dal costato squarciato, secondo quanto dettato da “Gesù Divina Misericordia” a S. Faustina Kowalska: “Dipingi un’immagine secondo il modello che vedi, con sotto scritto: “Gesù, io confido in Te!”, “con due fasci di luce [...]; raggi che rappresentano il sangue e l’acqua. Il raggio pallido rappresenta l’acqua che giustifica le anime; il raggio rosso rappresenta il sangue che è la vita delle anime”. Immagine tratteggiata più volte e con generosità (per la basilica d’Aquileia, il santuario di Monte Grisa a Trieste, la chiesa di S. Maria delle Grazie a Caserta e persino per Mosca, etc), su accorato appello di un gruppo che collabora anche con le parrocchie dell’Est Europa per diffonderne i messaggi e l’icona. Immagine che, per la dolcezza “misteriosa” che emana, soddisfa anch’essa il desiderio di Mons. Ciani di concepire l’arte non come fine a se stessa, ma come uno strumento di grazia per entrare in comunicazione, attraverso il suo speciale linguaggio e al di là del suo ministero (è un Alto Prelato Uditore del Tribunale della Sacra Rota) e degli studi effettuati (ha conseguito tre Lauree, rispettivamente in Diritto canonico, in Filosofia e Teologia), che pure influenzano le sue opere essendo parti integranti della sua persona, con chi non crede o è lontano dalla fede. Chi si ferma infatti, anche per un solo istante, a contemplare l’immagine di “Gesù Sacerdote della Divina Misericordia” non può non esclamare con S. Agostino: “Lascia che io parli davanti alla tua misericordia; sono terra e cenere, ma tu lasciami parlare, perché è alla tua misericordia, non ad un uomo pronto a deridermi, che io parlo. Forse anche tu riderai di me, ma poi mi guarderai e avrai misericordia”. Immagine che sintetizza le scelte d’arte e di vita di quest’artista. D’altra parte forse è vero ciò che affermava Schopenhauer: “La vita e i sogni sono pagine di uno stesso libro”. Quello di Mons. Ciani e il nostro. Un augurio.

 

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