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Vecchierella mia


giovedì 4 gennaio 2007 di Arturo Capasso



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Le vecchiette, che andavano con scarpe basse nella poltiglia fangosa e ora si schivavano da un camion, ora da un’auto, m’hanno riportato ai tempi della guerra.

Negli Abruzzi, a Sulmona, la mia vecchietta andava al mattino presto al mercato per comprare frutta, ortaggi, carne. Spesso l’accompagnavo. Faceva freddo e noi non eravamo equipaggiati. Un mattino mise il piede su una lastra di ghiaccio, affondò per mezza gamba. Rimase a letto diversi giorni. Sempre prima, lei. A lavorare, ad amare, a soffrire.

Ancor oggi sono preso da commozione. Uscii di casa alle sei. Il furgoncino si fermò presso il chiosco e depositò il pacco dei giornali freschi, con l’odore forte dell’inchiostro. Alla penultima pagina, dove di solito c’erano nomi sconosciuti o d’amici lontani.

Su tutta la colonna un nome ripetuto tante volte: mia madre era morta. Ripiegai il giornale e andai per la strada deserta, voltando poi verso il lungomare. In ventiquattr’ore se n’era andata. Una vita di sacrifici; ma il suo non era sacrificio: solo gioia intima di donarsi. Vicino al suo letto s’inginocchiarono donne del popolo, cresciute da lei come da una madre. Una non volle lasciarla e pianse per tutta la notte; era all’ultimo mese di gravidanza. La cara mamma. La vidi il giorno precedente e stava bene. Rientrai a casa tardi: non trovai nessuno; erano tutti presso il suo capezzale.

Un attacco al cuore: al suo cuore generoso così forte d’amore ma tanto fragile. Dodici anni prima era stata colpita da una trombosi e da allora le sue condizioni erano state sempre precarie. La trovai con la bombola d’ossigeno e il glucosio che scendeva a gocce continue nella vena che perdeva sempre più consistenza. Tutti quanti intorno. Non poteva essere. Si sarebbe ripresa. Vennero medici a visitarla. Iniezioni a piccoli intervalli. Endovenose, intramuscolari.

Scatole su scatole, fiale piccole e grosse, seghette, aghi, bottiglie di spirito e cotone idrofilo. Tutto sul comò, dove lei tante volte aveva poggiato i soldi per la spesa o il pettine con i lunghi capelli, grigi attorcigliati. Speravamo proprio nella forza del suo cuore. L ’affanno era forte, la conoscenza perduta, le palpebre abbassate. Mi accostai, le presi la mano. Quella mano così piccola e calda. Semplice e tenera. La baciai e la passai sulla mia guancia. Quella mano mi parlava. Piansi di commozione. La mia vecchiarella stava morendo.

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Spirit of the Dead Watching
Gauging 1892 Oil on burlap mounted on canvas, 72.4 x 92.4 cm Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY

Aprì un po’ gli occhi e due lacrime rigarono il suo volto così dolce. Povera mamma. Cosa volevate dire? Che sentivate? Voleva salutarci? Ci voleva chiamare per nome? Il miracolo, ecco; ci voleva il miracolo. Pregarono e fecero voti; sarebbero andati a piedi al Santuario, avrebbero fatto penitenza. Ma i miracoli non succedono ai nostri giorni. All’improvviso. Pochi rantoli. Della schiuma dalla bocca. Dei movimenti di testa e forti tremolii delle palpebre. Gridarono. Implorarono. Non poteva lasciarci. Non doveva. L ’ossigeno non serviva più.

Adagiata sul letto, ma al posto dell’uomo che era stato suo compagno per tutta una vita e che pure chiamò due volte prima di morire. Un mazzo di rose rosse con gli steli lunghi, come li aveva alla sua festa. Era l’unico regalo che aspettava. E papà non lo dimenticava mai. Con un bel biglietto e tante parole dolci che la intenerivano. Senza di lei. Ancora non ci credo. Lo sguardo è tutta dolcezza. Ecco, forse per giudicare una persona bisogna vederla da morta: si capisce meglio che il suo spirito amava i cieli infiniti.

Uno scendere lento per le scale: l’ultima uscita. Un triste andare al cimitero. Qui riposano le care spoglie di mamma mia. Insegnò al marito, ai figli, a quanti la conobbero l’amore, l’abnegazione, il sacrificio.

Io ti scrivo di nascosto, mamma. Chi potrebbe capirmi in questo momento? Crederebbero che sono il solito originale e che non rispetto neppure l’ora del lutto. Ma tu lo sai, mamma. Vedi, la penna s’arresta, non posso scrivere. Piango lacrime senza pace e piene d’amarezza. Nel piccolo vano del giardino, dove da scapolo avevo il mio studio e che ora è un ripostiglio per roba vecchia. Mi attardavo e ti dispiaceva perché studiavo troppo e pensavi che m’avrebbe fatto male. Ma eri fiera del tuo ultimo maschio.

Quando mi laureai indossasti il vestito più bello e venisti con papà a sentire la mia dissertazione. Io voltavo lo sguardo verso di te e gioivo perché eri felice. Ma tu eri felice perché sapevi che avevo raggiunto qualcosa per cui ci tenevo. Sempre così sei stata: gioivi e soffrivi con tutti.

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Mater
Photo: Kira Perov

Durante le classi medie passavo lunghe ore nella mia camera di sopra; venivi e ti mettevi vicino alla finestra o davanti al piccolo tavolo. A volte alzavo lo sguardo e vedevo che mi guardavi. Chiedevo: cosa c’è? E tu: non ti posso guardare? Mi piace starti a guardare.

Quella immagine era stampata nel mio cervello. Negli ultimi anni, quando ti venivo a trovare di pomeriggio, eri sempre nella stessa camera e sulla stessa sedia. Ti trovavo fredda fredda. Così piccola, tutta stretta in te stessa.

Accarezzavo la mano e anche quella era fredda. Poi il tuo sguardo si posava ancora su di me, ma non era più quello di una volta. I tuoi occhi erano tristi e pieni di malinconia. Eri rimasta sola. I tuoi figli: tutti sposati. Dicevi sempre: voglio vedervi sistemati. Ma quando uscivano di casa il tuo dispiacere era forte. Non ce lo dicevi e soffrivi in silenzio.

Vecchiarella mia. Io ti vorrò sempre bene, ma non voglio ricordarti come l’altra notte. Volevi parlare, ma non potevi; volevi guardarci, ma i tuoi occhi restavano chiusi. E le braccia restavano ferme. Addio mamma.

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The Isle of the Dead
Boecklin, Arnold 1880 Oil on canvas 111 x 155 cm Kunstmuseum Basel, Basle

Ora so cosa significa andare al cimitero e portare i fiori a uno che ci appartiene.

Addio, vecchiarella mia.

 

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