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Villa Poniatowski

Un gioiello architettonico adiacente a Villa Giulia con reperti dell’Umbria e del Lazio antico
lunedì 1 maggio 2017 di Roberto Benatti

Argomenti: Arte, artisti
Argomenti: Mostre, musei, arch.
Argomenti: Architettura, Archeologia


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Osservando frontalmente il grande edificio di Villa Giulia, sul lato destro della piazza antistante si può notare un grande portale in pietra. Si tratta dell’ingresso di Villa Poniatowski, acquisita dallo Stato Italiano nel 1988 e oggi sede integrante del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Dallo scorso 1° aprile la villa è stata finalmente aperta al pubblico con orari regolari il giovedì mattina e il sabato pomeriggio.

Data l’importanza di alcuni personaggi che vi hanno abitato, vale la pena soffermarsi sulla storia dell’area di Valle Giulia, che solo per brevi periodi ha avuto un assetto uniforme. Durante il pontificato di Giulio III, il settore meridionale era così organizzato: una striscia sottile e allungata apparteneva al papa e alla camera apostolica, mentre un vasto appezzamento della vigna era detenuto da Ippolito Sarto. Prima del 1570, questi due terreni furono unificati e acquistati dal cardinale Pier Donato Cesi, che vi fece costruire la propria villa, su disegno di Jacopo Barozzi da Vignola, riccamente ornata da statue, fontane, rampe e scale monumentali. Negli anni successivi, la residenza passò alla famiglia Borromeo, poi a Maria Aldobrandini, quindi di nuovo ai Cesi, finché, nel 1702, venne ceduta, in stato di rovina, al marchese Giulio Sinibaldi.

Una parte della Villa Cesi-Sinibaldi, ormai in decadenza, fu acquistata dal principe polacco Stanislao Poniatowski, nipote del Re di Polonia, che incaricò il Valadier dei lavori di sistemazione del complesso, in particolare dell’edificio cinquecentesco in via dell’Arco Oscuro (attuale via di Villa Giulia).

L’architetto attuò il rinnovamento sostanziale degli spazi, sia interni che esterni, compresa la costruzione delle stalle su via Flaminia, in seguito sopraelevate e trasformate in studio del pittore e incisore Mariano Fortuny y Carbó. Nel 1826, l’immobile divenne proprietà del generale Riccardo Sykes e quindi di Domenico Carelli, pittore napoletano; in seguito, fu oggetto di continue compravendite. La villa rimase danneggiata, durante la Repubblica Romana del 1849, dagli scontri tra Garibaldi e i Francesi e, fino al 1864, appartenne al nobile inglese Francesco Moore Esmeade. Nel 1879, il settore già del generale Sykes fu acquistato dall’artista Alfredo Strohl-Fern, che lo trasformò radicalmente, con gusto romantico, costruendovi numerosi studi per ospitare artisti. Nel parco, divenuto di Villa Strohl-Fern, nei pressi del viale di accesso che sale dal portale cinquecentesco di fronte a Villa Giulia, vi era un laghetto navigabile, proprio in corrispondenza della “Casa ad arco”, un padiglione abitato dal poeta Rilke. A nord di via di Villa Giulia, tra il 1943 e il 1950, venne edificata la Basilica di Sant’Eugenio. Nel 1972, fu avviata la procedura di esproprio della villa, ma solo nel 1988 è stato sancito il passaggio di proprietà allo Stato italiano.

Villa Poniatowski oggi accoglie i reperti degli scavi umbri e del Lazio Vetus rinvenuti fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900. L’ingresso principale è ubicato in via di Villa Giulia, l’antica via dell’Arco oscuro, un sentiero che partiva da via Flaminia e che arrivava al Monte Parioli.

Si accede alla villa da una rampa che conduce nel cuore dell’edificio, dove si trovano le esposizioni delle collezioni del museo. Nel pianerottolo antistante si trova una porta sulla destra che accedeva all’essiccatoio delle concerie Riganti, cosiddette dal nome degli ultimi proprietari. Il museo si trova nella parte restaurata dell’edificio, che subì forti trasformazioni dalla fine del ‘700, per mano del Principe Poniatowsky e del suo architetto Valadier, a cui dobbiamo rendere merito di numerose opere nella città di Roma, la più celebre delle quali è la sistemazione urbanistica di Piazza del Popolo. Entrando nell’edificio troviamo al pianterreno la prima sala espositiva, detta dell’Ercole Farnese, che conserva sopra il camino un calco in gesso, tratto dall’Ara Pacis di Augusto, raffigurante una processione, il cui originale si trova ancora oggi sull’Ara.

In questa sala si trovano numerosi reperti delle popolazioni Umbre che abitavano la Valle Tiberina. Nella vetrina centrale possiamo ammirare dei corredi funerari dell’antica Todi, cittadina confinante con l’Etruria. I reperti sono stati prelevati dalla tomba degli ori dalla necropoli della Peschiera risalente alla prima metà del III sec. a.C. La donna che qui fu sepolta doveva indossare un abito tutto intessuto d’oro e splendidi gioielli, come la collana a bulle decorata con teste di medusa e i grandi orecchini d’oro con pendenti a testa femminile. Si nota anche una raffinata brocca in bronzo, con l’ansa modellata a forma di satiro nudo, e uno specchio con la rappresentazione del giudizio di Paride.

Un’altra vetrina è relativa alla sepoltura di un guerriero del V sec. a.C., con un imponente corredo da banchetto in bronzo, coppe di ceramica attica figurata e il prezioso elmo da parata in bronzo, di produzione vulcente, caratterizzato da scene di combattimento sulle placche a protezione delle guance.

Dal territorio di Gualdo Tadino proviene un corredo funerario del IV sec. a.C.: colpiscono l’attenzione i due elmi a calotta in bronzo, il raffinato cinturone in lamina di bronzo e la grande spada in ferro, tutti appartenenti ad un grande aristocratico guerriero. Oggetti particolarmente rari sono i barilotti in legno con fasciature in bronzo, del IV sec. a.C., la cui funzione era quella di trasportare i liquidi com’è raffigurato nella Cista Ficoroni esposta nell’Antiquarium di Villa Giulia.

Si sale quindi al piano nobile della Villa, dove dalle ampie finestre, che si aprono su uno dei lati, si possono ammirare le parti di giardino e di edificio più antiche. Proseguendo il percorso si entra nella sala 2 dove sono raccolti i reperti provenienti dal Lazio antico, scoperti alla fine del 1800.

Qui sono esposti materiali votivi e rivestimenti di particolare pregio rinvenuti da antichi santuari laziali, come il santuario di Diana a Nemi, da cui provengono numerosi oggetti votivi, come pure i rivestimenti architettonici in bronzo dorato del santuario, che lasciano intuire lo sfarzo dell’edificio. In un’altra vetrina si possono ammirare numerosi manufatti miniaturistici del deposito votivo di Tivoli, databili tra l’VIII e il II sec. a.C.; più spostato possiamo notare il grande sarcofago in tronco di quercia rinvenuto a Gabii nel 1899, in una sepoltura risalente al VII sec. a.C., nonché un’anfora di importazione fenicia ben conservata. Nella sala 3, detta “dei busti”, l’attenzione è catturata dalla testa in terracotta (II - III sec. a.C.), probabilmente dal frontone di un tempio a Monte Antenne, nel parco di Villa Ada, un tempo importante snodo di comunicazione e di incontro del fiume Tevere con l’Aniene.

La visita prosegue nella sala 4 o sala “Indiana”, cosiddetta dagli affreschi ottocenteschi che riproducono temi esotici: una serie di quadri incorniciati da ampi tendaggi che presentano raffigurazioni di scalinate della città di Benares e le tombe Moghul. Qui vengono ospitati manufatti del Borgo Le Ferriere in provincia di Latina, frequentato già dall’età del bronzo. Abitato da una comunità ricca e potente, così come documentato dalla ceramica fine da mensa, dalle armi in bronzo e dall’eccezionale quantità di ambre anche figurate, nella tomba omonima, databile intorno alla metà del settimo secolo a.C. Vale la pena soffermarsi ad osservare il monumentale tripode che poteva contenere acqua o vino, da utilizzare nel banchetto, una coppa formata da una doppia lamina di importazione orientale, decorata a sbalzo con figure di sirene e teste di animali, infine un corno per bere con catenella di sospensione e tappo in legno.

Ben due sale (5 e 6) sono dedicate a Satrico, che in età arcaica fu probabilmente la città più grande del Latium vetus dopo Alba Longa. Particolarmente importante era il santuario dedicato a Mater Matuta, la protettrice delle nascite. Nella sala 5 si possono osservare i doni offerti alla divinità, databili dal VII al II sec. a.C., con vasi, monili, teste in terracotta, modellini di troni e di templi.

Ma è soprattutto l’edificio templare che ha avuto nel tempo più fasi edilizie, rappresentate nella sala 6, a colpire l’attenzione per la testa di Giove a grandezza naturale e per i vivaci altorilievi del frontone ancora ben conservati; le antefisse dell’edificio più antico del 560 – 550 a.C., sono a testa femminile, a gorgone e a palmetta, con esuberanti toni cromatici.

La Sala 7 è detta sala “delle colonne”, o anche sala “Egizia” per gli affreschi neoclassici che riproducono scorci di paesaggi egiziani: qui possiamo ammirare le sepolture principesche di Palestrina, le tombe Bernardini e Barberini, dove si esprime tutto il fasto della cultura cosiddetta orientalizzante, con le straordinarie oreficerie di produzione etrusca, gli avori intagliati, le suppellettili in oro, argento e bronzo, i grandi lebeti con protomi di grifo.

La tomba Bernardini, così chiamata dai due fratelli che finanziarono lo scavo nel 1876, accoglieva il corpo di un guerriero di alto rango; nella fossa di sepoltura vi erano oggetti di ornamento personale, osserviamo la finezza dei disegni nella patera d’argento, decorata con motivi egizi, la splendida coppa di vetro blu, forse di provenienza assira, il singolare tripode di bronzo e ferro, con le figurine che guardano il recipiente, di ispirazione orientale. Il corredo della tomba Barberini, scavata alla metà del 1800, è relativo a un capo guerriero, come si intuisce dalla presenza di armi e del trono in lamina di bronzo sbalzato dallo schienale ricurvo. Del tutto eccezionali sono gli avori lavorati, come pure il carrello in bronzo su ruote, utilizzato per bruciare essenze e profumi nel corso della cerimonia funebre. Pure notevole è la scena di processione con carri, presentata su una lastra di terracotta che rivestiva la gronda di un tempio, rinvenuta a Palestrina nella località Colombella: è databile al VI sec. a.C. e conserva ancora vivacissimi colori.

Nella sala 8 possiamo osservare la stratificazione dei lavori edili che hanno interessato la Villa Poniatowski, mentre i reperti esposti sono relativi alla cittadina di Preneste (databile al IV – II sec. a.C.), l’odierna Palestrina, con alcuni oggetti della collezione Barberin. Particolari sono i balsamari in pasta vitrea e alabastro, i sandali in cuoio finemente decorato, una scatolina cilindrica in legno per la cosmesi con una spugnetta ancora conservata e le divertenti scatoline per il trucco in legno, a forma di colomba o di cerbiatto accosciato. Troviamo anche degli specchi di produzione prenestina decorati con scene di contenuto mitologico.

A un gioco da tavolo analogo al filetto appartengono le pedine in pasta vitrea; altri elementi ludici erano i dadi in osso, alcuni dei quali risultano truccati con dei fori che alleggeriscono dei lati, evidentemente per poter barare. Nella sala 9, infine, si possono ammirare le sculture in terracotta del frontone del tempio di Giunone Moneta a Segni (500-480 a.C.), con guerrieri che si affrontano gli uni contro gli altri; volgendo invece lo sguardo verso l’alto si possono scorgere le lastre decorate del tempio di Alatri, la cui ricostruzione in scala reale è stata realizzata nel giardino di Villa Giulia alla fine del 1800.

Prima di essere trasformata in museo, Villa Poniatowski ha richiesto enormi interventi di natura conservativa, e grazie al lavoro organizzato e ben fatto della Soprintendenza, vale oggi la pena di scoprire questo gioiello rinascimentale-neoclasssico e immergersi nella natura e negli scorci che si possono ammirare dalle sue terrazze e vetrate.

P.S.

Apertura di Villa Poniatowski

Dal 1° aprile 2017 al 24 febbraio 2018: sabato pomeriggio (ore 15-18 con ultimo ingresso ore 17,15) e giovedì mattina (ore 10-13 con ultimo ingresso ore 12,15).
Mese di Agosto 2017: mercoledì e giovedì pomeriggio (ore 15-18 con ultimo ingresso ore 17,15).