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La cultura della Vita contro quella della Morte


domenica 1 marzo 2015 di Giovanna D’Arbitrio

Argomenti: Mondo
Argomenti: Personaggi famosi/storici


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“One child, one teacher, one book and one pen
can change the world”. (Malala)

“Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”, affermò Malala Yousafzai ad appena 16 anni d’età nel suo significativo discorso all’ONU tenuto il 12 luglio 2013: avvolta nello scialle di Benazir Bhutto (altra martire della libertà), a testa alta, fiera e coraggiosa parlò davanti ai potenti del mondo difendendo il diritto allo studio.

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Malala, Premio Nobel

Ci sembra giusto citarne qui alcuni passaggi essenziali: “Comprendiamo l’importanza della luce quando vediamo l’oscurità, della voce quando veniamo messi a tacere. Allo stesso modo nel Pakistan abbiamo compreso l’importanza di penne e libri quando abbiamo visto le armi. La penna è più forte della spada…La pace è necessaria ai fini dell’istruzione, il terrorismo e i conflitti impediscono di andare a scuola. Noi siamo stanchi di queste guerre… Chiediamo ai leader di tutto il mondo di cambiare le politiche strategiche a favore di pace e prosperità, affinché tutti gli accordi tutelino i diritti di donne e bambini. Chiediamo a tutti i governi di assicurare l’istruzione obbligatoria e gratuita in tutto il mondo a ogni bambino, lottando contro il terrorismo’.

Il padre di Malala, Ziauddin, subito dopo la brutale aggressione subita dalla figlia il 9 ottobre del 2012 da parte di un gruppo di fondamentalisti, affermò che la voce di sua figlia “è la voce delle genti del Pakistan e di tutti i bambini deprivati del mondo. Malala e tutti gli altri attivisti per i diritti umani e delle donne devono essere ascoltati sinceramente e seriamente”. Ziauddin, sua moglie e altri due figli, si trasferirono per un mese a Birmingham (U.K.) per stare vicini a Malala, ricoverata al Queen Elisabeth Hospital dove le sue gravi ferite furono curate.

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Malala con il padre, Ziauddin

Nel 2013 a Malala venne affidata una petizione, firmata da quasi 4 milioni di persone, per sostenere non solo il diritto all’istruzione di 67 milioni di ragazzi, ma anche per chiedere pene severe contro lavoro minorile e altri orribili traffici illeciti che coinvolgono i bambini, testimoniati anche da un rapporto pubblicato da Unesco e Save the Children.

Il 10 ottobre 2014 alla coraggiosa pakistana e all’indiano Kailash Satyarthi fu assegnato il Premio Nobel per la Pace. Kailash Satyarthi (60 anni) dedicò il suo premio ai bambini che vivono in schiavitù e ora continua a lottare contro il lavoro minorile con la sua organizzazione Bachpan Bachao Andolan attraverso la quale è riuscito a liberare almeno 80mila bambini. Kailash sostiene che ’basterebbero tre giorni di spesa militare mondiale, pari a 11 miliardi di dollari, per far sparire la piaga del lavoro minorile, mandando a scuola 246 milioni di bambini lavoratori’. Nel dicembre 2011 la suddetta organizzazione ha pubblicato uno studio attestante la sparizione di 11 bambini indiani ogni ora, vittime del traffico di esseri umani.

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Kailash Satyarthi

La lezione di Malala e di Kailash dovrebbe rappresentare un monito anche per tutti i paesi occidentali dove di continuo si apportano tagli a istruzione e cultura piuttosto che a sprechi derivanti da corruzione e privilegi acquisiti sfruttando e opprimendo classi sociali più povere e paesi sottosviluppati: adesso le conseguenze di secoli di iniquità, ingiustizie sociali, ignoranza, guerre, guerriglie e quant’altro sono sotto i nostri occhi e abbiamo paura davanti alle orrende immagini di violenza e morte che ogni giorno vediamo nei Tg. Ci sembra di essere ritornati ai secoli bui del Medioevo, in un progressivo sprofondamento nell’abisso dell’inciviltà. Attoniti e sgomenti ci poniamo inquietanti interrogativi.

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Discorso all’ONU

Come mai micidiali armi finiscono nelle mani dei terroristi? Come mai i governi (anche quelli più indebitati) scelgono di acquistare costose armi e non investono su istruzione, cultura, lavoro e solidarietà che potrebbero creare vivibilità invece di guerre, violenza, criminalità, morte e distruzione? In fondo anche “i ghetti” periferici delle grandi città occidentali hanno problemi simili. Come mai perfino l’Europa rinuncia a essere un faro di civiltà e cultura, crollando sotto i colpi dello Spread? Come si può parlare di posti di lavoro se poi si consentono le “delocalizzazioni”? Cosa succederà alla Grecia? Dove ci condurrà l’Ucraina? E la Libia? Le domande potrebbero essere ancora tante, ma difficili e complicate sono le risposte. In realtà non si pensa mai all’effetto “boomerang”, cioè al principio causa-effetto che è alla base degli eventi storici.

Oggi si discute per ore su crisi economica, disoccupazione, immigrazione clandestina, terrorismo e guerre, senza tuttavia coglierne i nessi che li accomunano: tali problemi sono tutti “effetti” di antiche “cause”, di errori fatti in passato che purtroppo vengono ripetuti. Colonialismo, neocolonialismo e ora la globalizzazione rappresentano un continuum storico senza correzioni di rotta: un’avanzata costante attraverso crescente sfruttamento e devastazione, egoistica ricerca di potere e denaro, ottundimento delle coscienze, crescente follia collettiva, ateismo o devastanti fondamentalismi religiosi che stanno bloccando una positiva evoluzione dell’Umanità.

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Martin Luter King

Ora l’Europa ha paura, ma invece di cercare maggiore unità nella lotta contro le cause degli attuali distruttivi effetti, continua a fare gli stessi errori creando divisioni trae paesi ricchi e poveri. Il pericolo è grande e ci rendiamo conto che l’Umanità è arrivata a un bivio: la scelta è tra barbarie o civiltà, egoismo o solidarietà, schiavitù o libertà. Forse siamo ancora in tempo per evitare il baratro, ma dobbiamo fare in fretta.

Ci sembra giusto concludere con le parole di M. Luther King: “L’ingiustizia che si verifica in un luogo minaccia la giustizia ovunque. Siamo tutti presi in una rete di reciprocità alla quale non si può sfuggire, legati a un unico destino. Qualsiasi cosa colpisca direttamente uno, colpisce indirettamente tutti.” (M. Luther King, lettera dal carcere di Birmingham, Usa, 16 aprile 1963).

 

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