Hans Memling è uno di quegli artisti che, pur apprezzatissimo in vita, ha subito nel tempo un calo di popolarità, eppure il suo universo pittorico fatto di Madonne, angeli, santi e pie donne ci trasmette un ideale di pacata bellezza e armonia, che ci parla subito di Rinascimento, e più esattamente di quel “Rinascimento fiammingo”, che fa da sottotitolo alla grande mostra, a cura di Till-Holger Borchert, che gli viene dedicata a Roma nelle Scuderie del Quirinale (fino al 18 gennaio 2015). Pur essendo nato in Germania, Memling ha legato indissolubilmente il suo nome alla città di Bruges (Brugge in fiammingo), nell’attuale Belgio, e in effetti guardando i suoi quadri, provenienti da musei di tutto il mondo, non possiamo non pensare a quella affascinante città, caratterizzata da verdi placidi canali e da ricche architetture, e popolata nel Quattrocento da una dinamica società mercantile, che voleva essere rappresentata per quello che era, in tutta la sua borghese opulenza.
In quella città cosmopolita non mancavano certo i mercanti e i banchieri italiani, come i Portinari di Firenze, che figurano tra i committenti di Memling e che hanno contribuito a far conoscere la pittura fiamminga a diversi artisti del nostro Rinascimento. Memling non è mai stato in Italia, ma ha avuto sicuramente rapporti con il nostro Paese, e questo contatto è ben evidenziato in mostra a partire dalla prima sala, dove ci accoglie il magnifico Ritratto di uomo con una moneta romana (1473/74), proveniente da Anversa, che un tempo era stato attribuito ad Antonello da Messina e che avrebbe ispirato a Sandro Botticelli il suo Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio.
Il ritratto, di tre quarti, è inserito in un paesaggio dai colori brillanti dove si nota una palma, che forse richiama il casato del committente. Potrebbe trattarsi, in effetti, dell’umanista e diplomatico veneziano Bernardo Bembo, che aveva un ramo di palma nel suo stemma. Quanto alla moneta, si vede chiaramente che raffigura l’imperatore Nerone e si possono leggere tutti i suoi nomi e titoli in latino.
Dai primi dipinti, dove è evidente la derivazione della pittura di Memling da Rogier Van der Weyden, suo presunto maestro (presente in mostra con due opere), e da Jan Van Eyck, vediamo come Memling riuscì a creare una sintesi dei notevoli risultati ottenuti da quei grandi pittori fiamminghi, divenendo con le sue tavole dipinte a olio il pittore di riferimento delle élites della sua epoca. Sono circa 50 le opere esposte, comprese quelle di suoi contemporanei. Molte sono di piccole dimensioni, ma ci sono alcuni grandi trittici, anche se manca quello celeberrimo di Danzica con il Giudizio universale, che era stato commissionato dal banchiere fiorentino Angelo Tani, ma che in Italia non è mai arrivato per un furto perpetrato all’epoca da pirati baltici.
Il monumentale trittico Moreel, che prende il nome dalla facoltosa famiglia di Bruges che lo commissionò e che raffigura al centro San Cristoforo tra Sant’Egidio e San Mauro, risale al 1484 ed è particolarmente interessante sia per lo sviluppo del paesaggio, sia perché rappresenta uno dei primi esempi di ritratto di gruppo nei due pannelli laterali, ovvero i due committenti, marito e moglie, rispettivamente con i figli e le figlie e i santi protettori, Guglielmo di Malavalle per lui e Barbara per lei.
Il trittico realizzato per Jan Crabbe (1470 circa), che ha come scena centrale la Crocifissione con Jan Crabbe e negli scomparti laterali (sul verso) l’Annunciazione, è stato eccezionalmente ricostruito per la mostra grazie ai prestiti da Vicenza, Bruges e New York. Il trittico di Adriaan Reins (Bruges, 1480) presenta al centro il Compianto su Cristo morto, mentre la Resurrezione è, invece, il tema centrale del trittico proveniente dal Louvre (1480/85), con il Martirio di San Sebastiano a sinistra e l’Ascensione a destra. In quest’ultima scena è curioso il fatto che di Cristo si vedono solo le gambe. Di grande suggestione è il trittico Pagagnotti (1480), ricomposto in mostra con il pannello centrale (Madonna col Bambino in trono e due angeli musicanti), proveniente da Firenze, e quelli laterali (con San Giovanni Battista e San Lorenzo) da Londra.
Di stampo allegorico è il trittico, da Strasburgo, della Vanità terrena (raffigurata come una donna nuda che regge in mano uno specchio) e della Salvezza divina (1485 circa). Questa volta le dimensioni sono piccole (appaiono in mostra sei quadretti), perché abbiamo a che fare con una forma di devozione privata, ben evidenziata in mostra anche con dipinti piccolissimi, come il Cristo dolente (1490, cm 12 x 9,2), da Esztergom (Ungheria), che fa pensare a un’immagine portatile.
Da Lisbona proviene la Madonna con il Bambino (1485), che porge al figlio una piccola mela, simbolo di quel peccato originale dal quale egli dovrà redimere l’umanità. È la stessa mela che viene offerta al Bambino da un angelo nel trittico Pagagnotti e nella Madonna con Bambino e Angeli della National Gallery di Washington. Altro motivo iconografico amato da Memling è la Maria lactans (Madonna del latte), che troviamo in un tondo (da New York) e in un altro della sua bottega. Tra le immagini devozionali vi è pure il Cristo benedicente, da Genova, che è messo a confronto con la copia fatta dal Ghirlandaio. Uno straordinario esempio di pittura sacra narrativa è dato dalla tavola con la Passione di Cristo (1470), dalla Galleria Sabauda di Torino, dove più eventi sono raffigurati in contemporanea con una prospettiva dall’alto, quasi a volo d’uccello.
Un’ampia sezione è dedicata ai contemporanei di Memling, così da avere un quadro del gusto artistico del Quattrocento e delle contaminazioni che passavano dall’Italia alle Fiandre e viceversa. Un’altra sezione è dedicata ai ritratti, che sono caratterizzati da paesaggi idillici sullo sfondo. Erano soprattutto gli italiani ad apprezzare questa combinazione di ritratto e paesaggio, che Memling realizzava con tanta bravura e che Leonardo avrebbe preso da lui per la Gioconda, come Paola Nuttall racconta nel suo saggio in catalogo (ed. Skira).
Che dire di questa mostra? La qualità dei dipinti parla da sé ed è per noi quasi incredibile pensare che, a partire dalla metà del Novecento, alcuni storici dell’arte considerassero Memling un maestro minore. Per fortuna la mostra che la città di Bruges gli ha dedicato nel 1994, in occasione del cinquecentenario della morte, gli ha restituito la giusta collocazione tra i maggiori pittori fiamminghi del Quattrocento e questa esposizione delle Scuderie del Quirinale ci permette di apprezzare pienamente la sua raffinatezza stilistica, che non di rado si trasforma in poesia.