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Il ruolo della scuola nella politica italiana.

Il ruolo della scuola nella politica italiana
martedì 1 aprile 2014 di Michele Penza

Argomenti: Opinioni, riflessioni
Argomenti: Politica


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E’ un tema tanto importante quanto ahimè sempre più trascurato e misconosciuto a partire dalle origini storiche del regno d’Italia. Il livello culturale della popolazione che i liberali del ‘70 si accinsero a governare era quello che possiamo desumere dagli scritti di Verga o di De Amicis.

Si trattava di una aggregazione di plebi contadine analfabete che si esprimevano generalmente nei dialetti locali. La lingua italiana era parlata praticamente da una elite minoritaria e solo nei principali centri urbani. Persino in casa Savoia si parlava abitualmente piemontese o francese. Poche le università, sostenute fino allora principalmente dalla munificenza dei principi, esile e bucherellato il tessuto nazionale della scuola di base, disomogenea e priva di un indirizzo univoco.

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Nei decenni di fine ottocento più che i cittadini la scuola italiana badò a formare se stessa. In realtà le prime beneficiarie di un tale processo furono le insegnanti che si avvalsero del lavoro come fattore di affrancamento femminile prima ancora che sociale. Furono esse le prime donne italiane a uscire di casa per andare a lavorare, prima di loro solo mondine o braccianti agricole che però si muovevano in gruppo solidale e solo per brevi periodi di tempo.

La maestra no, andava sola. Poteva essere inviata in luogo lontano da casa, dimenticato da Dio e dagli uomini in condizioni disagiatissime, e non poteva rifiutarsi. Per lungo tempo ancora le insegnanti furono persino esposte all’attenzione critica della gente che talvolta le guardava con sospetto. Uno dei miei zii che ne aveva sposato una mi raccontava dei malumori della famiglia per essersi lui messo con “una di quelle sfacciate, che parlano sempre con gli uomini, senza la minima vergogna”.

In realtà però le insegnanti col tempo e l’impegno finirono con l’acquisire una sorta di status molto particolare: erano rispettate e in certo senso protette. Era difficile toccarle se non avevano voglia di essere toccate. Si sono conquistate un ruolo e sono state brave, lo hanno fatto sul campo.

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Corpo insegnante di una scuola di Bologna (1900-1910)

Nei primi decenni del secolo scorso la scuola era invece caratterizzata dal militarismo. I giovani trascorrevano anni nel servizio militare di leva, che era esso stesso una scuola, seppure molto speciale. Furono accostati ragazzi che in vita loro non avevano mai dormito in un letto, ma solo in terra, ad altri ragazzi che neppure immaginavano potessero esistere simili casi. La conoscenza reciproca di due campioni della società così diversi fra loro poteva in entrambi i soggetti favorire l’insorgere e il maturare di riflessioni utili e positive. Molte di queste persone impararono, tra l’altro, anche a leggere e scrivere negli appositi corsi per soldati analfabeti.

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Tra le due guerre anche la scuola propriamente detta fu marcatamente segnata dalla esperienza fascista. Io stesso ricordo di avere tra i sei e i tredici anni militato nella Gioventù del Littorio, frequentato ogni sabato la scuola in camicia nera, dedicato giornate intere a una istruzione di tipo premilitare nonché, udite udite, per almeno una decina di volte giurato di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione Fascista. Adesso nel ricordarlo non mi sembra nemmeno più una inutile forzatura ma semplicemente una cosa idiota. Comunque anche scemenze del genere potevano appartenere alla scuola del passato e non solo di quel tempo. La strumentalizzazione becera dell’insegnamento a fini politici può assumere vari aspetti e l’ho vista qualche volta, in forme più subdole e sottili, protrarsi nei decenni successivi alla mia infanzia.

La scuola nella repubblica democratica era gestita in duopolio dalle due ditte maggiori, le sole che vantassero a loro volta una scuola di formazione per i loro quadri: la Democrazia Cristiana e il P.C.I. ed entrambi lo fecero nel modo a mio parere peggiore. Per la D.C. la scuola doveva essere più che altro una fabbrica di consenso e il metodo usato era quello della gestione clientelare del personale, quindi concorsi più o meno fasulli, assegnazione di cattedre, trasferimenti, supplenze ecc. ecc. Una macchina organizzata in modo capillare ed efficace, funzionale al risultato elettorale, non certo alla scuola stessa. Il fine educativo quando c’era veniva in coda a tutto il resto.

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Il P.C.I. aveva invece tutt’altro obbiettivo. Escluso com’era dalla gestione del potere nella scuola volle dimostrare che era però in grado di condizionarla, e coerentemente si sforzò in ogni modo di bloccarne il funzionamento. Ogni occasione era buona per promuovere una mobilitazione da affiancare a quelle sindacali, quasi sempre uno sciopero o del personale, pel quale una buona ragione non era difficile trovare o, molto più spesso e a tal fine ogni pretesto era buono, quello degli studenti. Personalmente io che potevo vantarmi di aver già cominciato nel ‘45 a scioperare per Trieste italiana ho visto manifestare dalla generazione successiva alla mia per la Corea ai coreani, per il Vietnam ai vietnamiti, per Cuba ai cubani, per la palestra agli studenti, per l’ autogestione, per i cessi intasati, per la libertà delle ragazze di venire a scuola vestite e truccate come loro aggrada, per la libertà del bidello Pasquale, senza se e senza ma, di vendere i panini con la nutella durante l’intervallo! Di fronte a una tale creatività, dico la verità, ho chinato il capo confuso e umiliato.

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La cosiddetta seconda repubblica ha visto il declino e la scomparsa dalla scena scolastica dei due soggetti politici principali che avevano dominato il paese per mezzo secolo, fino al 1994. Restano tuttavia tracce indelebili del loro passaggio. Certe comodità non si cancellano facilmente dalla memoria storica e tendono a perpetuarsi nell’uso e nei comportamenti. Ogni anno, verso la metà di novembre, un misterioso meccanismo scatta, non si sa per quale processo mentale e i ragazzi, o chi per loro non saprei, decidono in solenne assemblea l’occupazione delle scuole e l’autogestione. Nemmeno loro sanno il perché tutto questo debba accadere, a cosa serva e chi sia il pifferaio che dà il segnale ma di una cosa vogliono essere certi, che almeno fino a Natale nessuno dovrà rompere loro le scatole. Di studiare se ne parlerà a gennaio.

Si palesa oggi una lontana possibilità che in un prossimo futuro sia prestata attenzione diversa a tutti questi elementi che colpevolmente sono stati finora trascurati, sottovalutati o deliberatamente strumentalizzati da chi avrebbe dovuto porvi mente? Bene. Era ora.

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Una generazione come la mia, che ha così vistosamente fallito nella educazione dei figli e nella costruzione di una società civile che sia appena appena umana e vivibile, che altro deve fare se non sostenere questa possibilità, alimentare questa speranza, suggerire di tentare di cogliere questa occasione che così inopinatamente ci viene offerta?