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Rivolta o barbarie (Salani Milano, 2012)

I NUOVI RIVOLTOSI TRA ELOGI E UTILI CRITICHE

Oltre le proteste. L’originale studio di Raparelli
venerdì 1 febbraio 2013 di Carlo Vallauri

Argomenti: Economia e Finanza
Argomenti: Politica
Argomenti: Francesco Raparelli


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La cultura della sinistra italiana è passata attraverso il lavacro del comunismo inteso quale grande speranza per l’umanità contro lo sfruttamento del lavoro ma ha subíto anche gli schematismi e settarismi tipici della scuola delle Frattocchie.

Nell’89 il crollo apparve quasi come un fulmine improvviso mentre era il prodotto di 70 anni di negazione (ben oltre la storica resistenza dei soldati russi) delle strade delle libertà: la rottura traumatica fu superata dalla maggior parte dei dirigenti di Botteghe Oscure come una fatalità della quale occorreva prendere atto senza stare troppo a ridiscutere. L’importante era seguire la svolta della Bolognina, senza ulteriori drammi personali e politici.

Ma la continuità di quei valori (e di tanti impliciti errori) è stata invece mantenuta in Italia da quella parte di estrema sinistra che si era differenziata dal PCI assumendo posizioni più “avanzate” all’insegna dell’operaismo di Tronti o del “millenarismo” alla Negri nonché di quei gruppi dell’area estrema espressa attraverso “Il Manifesto” e residui gruppi comunisti caratterizzati specialmente dalla presenza di filosofi e letterari “divergenti”, tutti filoni che non si sono poi riconosciuti nel partito democratico creato da Veltroni. La linea più resistente sul piano della difesa di posizioni di sinistra a livello europeo è quella fondata nella rivendicazione di una posizione difensiva sul terreno economico-sociale che ha indotto a sostenere almeno il keynesianesimo pur nelle sue varie declinazioni, comunque tutt’altro che prive di buoni argomenti anche di fronte alle imprese dell’alta finanza internazionale, le cui attività nel contesto della globalizzazione hanno provocato la grande “contrazione” dell’economia reale.

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Francesco Raparelli

Su questo binario a me pare meriti attenzione, tra le più vivaci manifestazioni in tale settore, l’interessante studio di Francesco Raparelli dal titolo Rivolta o barbarie pubblicato da Salani - Ponte alle Grazie (Milano, 2012), un libro che si fa leggere per la capacità e semplicità narrativa ed esplicativa. L’autore è legato ad un percorso fruttificante dell’Italia oggi semi-silenziosa che a tratti sa esprimere tuttavia consistenti riflessioni, muovendo in questo caso l’analisi dall’iniziativismo del ’68 e del più “inquadrato” ’77, sino ai successivi percorsi “rivoluzionari” esplosi a livello mondiale soprattutto grazie ai “no global”.

Adesso siamo giunti ad un punto di valutazione culturale ed economica di significativo rilievo che Raparelli riconduce alla scuola Guattari-Deleuze ma che soprattutto si riallaccia al Marx autentico dell’ “accumulazione” primitiva, quindi ad una chiara visione dell’ingranaggio capitalistico, tutt’oggi valida e capace quindi di ricondurre ad un “programma anticapitalista” in grado di battersi contro la dittatura esercitata dalla tecnocrazia di Francoforte e Bruxelles. Il richiamo ad un’ “Europa sociale e dei diritti” riconduce però a quanto realizzato dapprima in Gran Bretagna e nei paesi nordici e poi dalla socialdemocrazia di Bad Godesberg e nella successiva realizzazione del Welfare social-cristiano affermatosi nell’Europa della guerra fredda. Torniamo all’attualità.

Sappiamo tutti la differenza tra il capitalismo finanziario e l’economia reale, e soprattutto conosciamo la tragedia provocata in America Latina e più recentemente in Grecia dalle operazioni disposte dalle “grandi” organizzazioni internazionali monetarie, francamente più rapide nel sostenere il sistema bancario che non le popolazioni povere del terzo, e adesso anche del primo mondo. Come è noto tutto cominciò con l’inizio degli anni ‘70 e si è trascinato di peggio in peggio dallo sviluppo delle multinazionali sino ai nefasti trattati europei (da Maastricht all’eurozona).

Sulla società indebitata Raparelli ha il merito di spiegare chiaramente il meccanismo della governabilità neo-liberale, già denunciata da Focault (1978-2004). Senza entrare nel merito di più penetranti considerazioni e interpretazioni muovendo dalle radici protestanti (come ha fatto recentemente, con ampiezza di orizzonti, Michele Ventura nel suo studio “La trappola”), egli non ha esitato a richiamare persino motivazioni di Nietzsche, come di Benjamin, ma soprattutto ha citato il precedente del “saccheggio” storico dalle “recinzioni” (che aprirono, specie nell’Anglia e in altre parti d’Europa, l’età moderna) riallacciandosi inoltre alle più recenti esperienze delle privatizzazioni messe in atto in Europa, specie congiunte alle realtà devastanti del debito pubblico moltiplicato ed utilizzato traendo denaro dal denaro.

L’esperienza “neo-imperiale” della attuale “democrazia” germanica viene assunta a termine di paragone per studiare e meglio contrastare la “disastrosa deriva” che rende sempre più ampio l’esercito dei poveri nel cuore dell’Europa. La spinta a “produrre poveri” appare così evidente nella pratica di Bernanke e della Banca Mondiale, un processo di “sviluppo” quasi ineluttabile – per come viene presentato – mentre nel libro sono additati quali esemplari positivi gli oppositori scesi nella piazza contro i responsabili della “mercificazione”, attraverso la prassi della protesta diffusa (e spesso conclusasi con scontri con forze di polizia). In questo quadro diventano “eroi” moderni i giovani di Genova 2001, anche se la giusta denuncia e indignazione contro gli abusi e le violenze allora commesse alla Diaz non possono far dimenticare la molteplicità delle pratiche impiegate in quella “grande occasione”. Le valide pagine sulle “violenze” sembrano però ignorare gli inevitabili rischi e le conseguenze derivanti dall’insieme di “atti” specifici commessi e che hanno luogo quando si dimentica di organizzare precisi servizi d’ordine degli stessi organizzatori delle manifestazioni, secondo l’antica tradizione della CGIL, e soprattutto si dimentica l’insegnamento di Gandhi che suggeriva di non avallare e non unirsi ai “violenti” se si vuole evitare che le polemiche sulle violenze finiscano per sostituirsi alle ragioni dalle quali muovono le proteste.

Non manca naturalmente anche la citazione dell’Etica di Spinoza, e non possiamo che rallegrarci per la ottima scelta delle letture di Raparelli e del metodo didascalico usato per dimostrare le sue tesi. Non sembra tuttavia utile impegnarsi a denunciare l’austerity giacché quando l’alternativa viene indicata semplicemente nel pragmatismo antiglobale, pur con tutto il rispetto e riconoscimento a tale esperienza, appare difficile rintracciare quale forza politica effettiva si sia costituita in base ad una serie di generici abbozzi anti-neoliberali, senza indicare metodologie e pratiche utilizzabili in sostituzione di generiche affermazioni di fede. Proprio il “cervello” – evocato giustamente dall’autore – potrebbe contribuire a rivelare una più esatta indicazione di quella che viene presentata e che va considerata comunque nella sua funzione positiva quale possibile prossima “costituente sociale europea”. L’emersione delle nuove figure operaie va certamente studiata e valorizzata ma appaiono ancora di fragile capacità effettiva quelle minoranze, attive, che di tanto in tanto compaiono, e che sembrano più una valida offerta di disponibilità sacrificale, che non una piattaforma chiara e precisa per definire linee di azione collegate soprattutto ad un ripensamento economico-finanziario anche nella semplice versione di un rinnovato keynesianesimo, stanti le presenti difficoltà. Ben vengano gli indignados e Occuppy Wall Street, movimenti di cui vanno apprezzate qualità e misure d’impegno, ma l’intreccio di tante differenti spinte emotive va meglio approfondito nelle sue origini e nella sua operosità nell’attuale contesto euro-atlantico.

Aver ripreso il motto di Costariadis – che teneva ad esaltare la possibilità di un “socialismo” realizzabile più che non una generica volontà di “rivolta” – segna un punto a favore di Raparelli, ma egli per primo non può non tener più presenti e misurarsi con le osservazioni di Paolo Virno nella prefazione circa il “bilancio critico” di tanti recenti tentativi di rinnovamento. Oggi è più utile valutare meglio le iniziative che hanno dimostrato negli ultimi decenni la loro fragilità, giacché la mancanza di analisi realistiche spingono a rifiutare realtà amare, sulle quali invece occorre operare attraverso azioni di lungo respiro in un mondo continuamente cangiante.