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A proposito della guerra di Libia (2011)


domenica 10 aprile 2011 di Carlo Vallauri

Argomenti: Attualità
Argomenti: Guerre, militari, partigiani


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L’improvvisa esplosione della rivolta di una “giovane” Africa nel’area mediterranea (febbraio-marzo 2011) ha sconvolto una serie di luoghi comuni sul destino dei paesi arabi, e di conseguenza anche sul ruolo delle comunità islamiche in quelle regioni, al di là del fondamentalismo, che, pur nella sua estensione e capacità di penetrazione, non si prospetta come un corso fatale. La scelta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di intervenire attraverso operazioni militari da condurre sul territorio libico ha riproposto, con immediatezza e forza mediatica, il tema dei mezzi più adeguati per la difesa di una pace capace di salvaguardare i diritti. In particolare le iniziative di Sarkozy e delle successive alleanze militari hanno suscitato un diffuso malessere che ha dato luogo a inedite coalizioni internazionali, comprendenti la Nato come la Lega Araba e l’Unione africana. 10000000000001C20000012C1A0119A3 In effetti la tutela di concreti interessi economici è evidente dietro la cosiddetta salvaguardia umanitaria. Si tenga presente che siamo di fronte ad una guerra intercapitalistica con gli aspetti terrificanti di una maggiore potenzialità bellica e del coinvolgimento di popolazioni diverse, e la supervisione degli Stati Uniti e il protagonismo franco-britannico (ma non siamo a Suez nel 1956). 10000000000000D40000012C0796E213

100000000000015E000001E4F919A65FAl fine di comprendere meglio il conflitto e l’incidenza dei suoi principali attori occorre guardare a quel processo definito da Sergio Latouche (1996) “occidentalizzazione” del mondo quale tendenza alla “uniformità globale”: infatti gli Stati Uniti hanno colto questa ulteriore occasione per guidare una crociata diretta ad assicurarsi che il Nord Africa non sfugga al determinante dominio dei grandi gruppi, come se non esistessero valori e caratteri differenziali meritevoli di rispetto e di capacità evolutiva autonoma.Superate le polemiche sulle possibili guerre “giuste” (cfr. M. Walzer) tornano d’attualità le chiare denunce di Einstein e Russel del 1955, ricordate da Gino Strada (Il Manifesto, 24 marzo 2011). Il ricorso ad una “no fly zone” come delimitazione di un’area sottratta ai rischi di violenza, non evita altre forme di violenza, anzi, nel processo concreto dei fatti, le moltiplica. L’esperienza dell’Afghanistan ne ha dato testimonianza.

Il richiamo di Strada all’esigenza di ridurre il potenziale di morte che insidia il mondo si è accompagnato in Italia all’invito di Franco Russo a tenere ferma l’applicazione della norma costituzionale che esplicitamente (art. 11) indica il ripudio della guerra quale principio fondamentale, senza ricorrere ad interpretazioni di comodo. La manipolazione dell’opinione pubblica rischia di far decadere l’obbligo vincolante di una norma che ha segnato l’ “alta civiltà giuridica” raggiunta appunto grazie al predetto articolo 11.

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Sergio Latouche

Ed il costituzionalista Gianni Ferrara ha aggiunto: La pace, per non restare inutilmente confinata nell’azzurro dei cieli, ha bisogno di forza, di quella adeguata a reprimere – in ogni pluralità di donne e di uomini – la violenza dei singoli, solitari o aggregati che siano, in bande, mafie, o anche in partiti ed anche negli e per gli stati. Ha bisogno di forza regolata ed istituzionalizzata, perché non è altrimenti credibile, e, se non è credibile, non è. Non lo è e non lo sarà mai pienamente una delibera del Consiglio di sicurezza.

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Michael Walzer

Gli eventi recenti sollecitano piuttosto una più coerente condotta da parte dei singoli Stati e dei governi. Rendono quindi ancora più attuale le necessità di organizzare, in base allo status dell’Onu, la forza appositamente prevista dal capo. VII (art. 42) in difesa dei diritti. Soltanto su queste basi può ricostituirsi un valido intreccio attorno al pacifismo internazionale, fondato sul rispetto dei valori troppo spesso citati e utilizzati quindi falsi scopi, come dimostrano le difficoltà emerse per organizzare l’assistenza a coloro che subiscono più direttamente le conseguenze delle privazioni dei diritti come degli eventi bellici.

Come ha scritto il giurista (Il Manifesto, 24 marzo 2011) “Non si può tacere. Se non si vuole accettare l’idea che ci si debba ormai affidare esclusivamente alle logiche perverse della politica di potenza, se non si vuole rinunciare al governo delle leggi delegando al governo degli uomini (buoni o malvagi che siano) … La nostra costituzione non prevede nessuna forma di intervento armato fuori dai confini per la risoluzione delle controversie internazionali ovvero come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Nessuna interpretazione evolutiva del testo costituzionale – per quanto autorevolmente espressa – può legittimare la tesi secondo cui le limitazioni di sovranità cui l’Italia consente per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni possano spingersi sino a comprendere l’uso della forza bellica. …Basta saper leggere la storia del costituzionalismo, una storia di ribellioni, contro i dittatori e per l’affermazione dei diritti umani. È il costituzionalismo che ha rivendicato il principio all’autodeterminazione dei popoli, ha legittimato il tirannicidio, ha affermato il diritto di resistenza . Essere pacifisti non significa essere pacifici”.

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Gaetano Azzariti

D’altronde – osserviamo – se alcuni Stati hanno dichiarato da tempo la loro condizione di neutralità, dalla Svizzera ai paesi scandinavi, all’Austria nel 55, dal canto suo l’Italia, con il testo costituzionale del 1948, ha assunto una specifica e singolare posizione che va rispettata e realizzata proprio quando si presentano casi concreti, come adesso per la Libia, dove d’altronde (come ha rilevato Azzariti) “la guerra non è stata l’ultima ratio, bensì la prima scelta”.