Gina MARZIALE


L’organicismo di Gina Marziale

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A me pare che l’area di appartenenza della pittura di Gina Marziale sia sostanzialmente introversiva, e quindi simbolico-segnica, nonostante le parvenze estroversive e gestuali di cui ama vestirsi. Le atmosfere cubo-astrattiste, orfiche, avanguardiste in generale, assumono in quest’arte valenze rievocative e memoriali, quasi di “ricapitolazione storica” all’interno di un pensiero che tende a recuperare alla natura le evoluzioni culturali, nell’esigenza di un confronto salutare.
La pittura di Marziale è arte di rappresentazione e non d’azione, anche se ciò che rappresenta non è che l’azione stessa, il moto nel suo rapporto di odio/amore con la stasi. La pittrice estrapola oggetti dal vorticoso divenire esistenziale e vi conferisce qualità psichiche straordinarie, fotografandoli nella tumultuosa staticità di questa essenza ritrovata. In breve, una rivalutazione gloriosa ed intima di ciò che il tempo altrimenti destinerebbe alla dissoluzione totale.
Il ready-made, l’oggetto trovato, diviene così una creatura vivente, un soggetto intelligente, una totalità, un mondo, un cosmo, un caleidoscopio magico, un polo di energia vitale. Gma Marziale indaga poeticamente sul rapporto fra limitato e illimitato; così scopre che il tutto è nella parte e viceversa, tornando alle radici di un organicismo obliterato, dove ogni cosa è interdipendente e possiede dunque un valore sconfinato.
Perlopiù gli oggetti dipinti sono lacerti di natura che appaiono all’interno di grovigli inestricabili: coralli, conchiglie, fossili, radici, rocce, animali, sorpresi nella loro stessa sorpresa di vivere, nel loro stupore esistenziale.
Sono zumate su realtà nascoste, su luoghi e microcosmi impensabili che esplodono con prepotenza sulla tela, mostrando il laboratorio pulsante e occulto del creato. Uno sbocciare alla vita dall’invisibile.

 E’ la vertigine del “primo giorno”, la meraviglia del primo vagito, ritrovata in un movimento implosivo, a ritroso verso le scaturigini dell’essere, anziché verso la vacua esplosione del divenire. Questo minimalismo, tuttavia, non nasce dal desiderio di soffocare il libero fluire della vita, bensì dal desiderio di non smarrire la verginità dei primordi pur nella complessità delle sovrastrutture culturali. Cina Marziale cerca con tutte le sue forze di mantenere vivo il cordone ombelicale che lega la cultura alla terra, l’umanità al creato, la storia alla natura.
A me pare sia questo il progetto di ogni vero näif e di ogni primitivismo degno di considerazione: un progetto di equilibrio fra il complesso e il semplice; un respiro unitario dell’essere, insieme espansivo e contrattivo. E non fu questa, appunto, la poetica di Henry Rousseau, primo vero näif del Novecento artistico, considerato un maestro da Picasso? Al di fuori di questo equilibrio ogni spontaneismo è inautentico, in quanto ideologico ed intellettualistico.
Ho citato Rousseau non a caso, perché mi sembra che “l’anima vegetale” di Gina possa considerarsi sorella di quell’arte barbara e gentile. Entrambi guardano indietro guardando avanti; ma in Marziale c’è una più raffinata malinconia, una maggiore difficoltà a richiamare l’essere occultato nell’invadenza esistenziale. Ne sortisce una poetica del rapporto fra il “chiuso” e 1’“aperto”, fra solitudine e coralità, fra trascendenza ed immanenza, dove io e non-io fanno a nascondino in un rimando di felicità/infelicità, di presenze e assenze.
Emblematico il dipinto della veranda, con quei colori freddi e velati, con quell’angoscia incombente e palpabile, con quella mestizia fitta come una nebbia, tutta al di qua della vetrata, mentre una finestra si apre verso orizzonti vegetali e verso sentieri eterei, verso assolutezze e pienezze intuite al di là dei propri angusti confini mentali. Il passaggio è aperto, la speranza può divenire realtà. Pur tuttavia l’anima resta bloccata sulla soglia di un oltrepassamento che forse è illecito effettuare.

Franco Campegiani